L'illusione di chi pensa che si possa ottenere garantismo senza toccare i pm
Tra Woody Allen e l'avvocato romano dei nazisti
"Sarò giustiziato domattina alle sei. Dovevo andarmene alle cinque, ma ho un avvocato in gamba: ho ottenuto clemenza”. Così Woody Allen nelle prime battute di “Amore e guerra”, film su un giovane russo condannato alla fucilazione dai francesi per aver tentato di assassinare Napoleone. E in effetti, se hai cospirato contro l’imperatore e ti sei intrufolato a corte con una pistola, per giunta travestito da diplomatico spagnolo, un avvocato che ti guadagna un’ora di vita in più è uno che sa fare il suo mestiere. Conoscete parabola più comica e più disperata, e dunque più inscalfibilmente vera, per illuminare la misera cosa a cui può ridursi il diritto di difesa quando tutte le armi sono in pugno all’accusa? Io forse ne conosco una.
Me l’ha raccontata anni fa Mauro Mellini, avvocato ed ex parlamentare radicale, rammaricandosi che nessuno ne avesse fatto un film, tra i tanti ambientati nella Roma occupata. E’ la storia di un ometto strambo, impazzito e ridotto in miseria dopo che il patrimonio della moglie, una ricca ereditiera tedesca, era stato confiscato dal governo del kaiser durante la Grande guerra. Mellini lo conobbe negli anni Cinquanta: “Era un avvocato, ma si era ridotto a vivere come un barbone, dormendo nei vagoni letto alla stazione Termini. Durante l’occupazione nazista, conoscendo benissimo il tedesco, si presentò a fare il difensore davanti al Tribunale di guerra installato all’Hotel Flora in via Veneto. Qualcuno raccontava che avesse fatto delle dotte arringhe per chiedere che i suoi (si fa per dire) difesi fossero fucilati nel petto anziché nella schiena. Tanto i ‘clienti’ il tedesco non lo capivano”.
Ecco, mi disse Mellini, questa è la storia da tenere a mente tutte le volte che si sente invocare, in condizioni come le nostre, più garantismo: “Voler porre la questione del garantismo davanti a tribunali obbedienti alla logica del partito dei magistrati equivale, più o meno, a prodigarsi in arringhe come quelle compitamente pronunziate dal poveretto”. Beccarsi una pallottola nel petto: se non proprio a questo, a poco più si riducono le aspirazioni di qualche benintenzionato. Di disarmare il plotone non se ne parla neppure più, anzi negli ultimi mesi si sta facendo di tutto per rifornire il suo arsenale. Finita la chiassosa e inconcludente stagione berlusconiana, riprende piede tra i migliori – ed è tutto dire: perché i peggiori neppure ci pensano – una pericolosa illusione: l’idea che si possa ottenere qualcosa di “garantista” senza toccare i poteri abnormi dei pubblici ministeri. Mi ricordano quelle madri compassionevoli, mogli di uomini irascibili, che vanno in segreto nella stanza del figlio punito ingiustamente o con troppo rigore, e lì lo consolano e all’occorrenza lo medicano; ma che mai si sognerebbero di far la voce grossa contro il marito.
A ripensarci, l’esponente più nobile di questa illusione è stato proprio Stefano Rodotà; che negli anni Ottanta si prodigò per la causa del detenuto Giuliano Naria, ma capeggiò anche il fronte del no al referendum Tortora, convinto che fosse una manovra di gruppi politici corrotti per attentare all’autonomia della magistratura; e che coerentemente, qualche lustro più tardi, da un lato tutelava la privacy dei cittadini e dall’altro le mani libere degli intercettatori, arringando il popolo viola e altre cattive compagnie contro la “legge bavaglio”. Illusione, beninteso, e non doppiezza. L’illusione di poter negoziare qualcosa di meglio di una pallottola in petto. Ricordatevi del povero Fornaretto, ma anche dell’ometto strambo di Mellini.