La fuffa del sospetto
Il codice antimafia riunisce il peggio della cultura giuridica italiana. Peggio persino del "non-reato" di Contrada
Il codice antimafia non è solo il nome di una legge orrenda, sconclusionata e pericolosa che questo Parlamento sciagurato sta cercando di approvare contro ogni logica giuridica e persino culturale. Il codice antimafia è qualcosa di più. E’ qualcosa di più grave, che in un certo modo riguarda anche l’incredibile storia di Bruno Contrada, la cui sentenza di condanna a dieci anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa, condanna già scontata, è stata clamorosamente annullata ieri dalla Corte di Cassazione. Il codice antimafia è qualcosa di più grave di una legge approvata in Parlamento. Il codice antimafia è una prassi. E’ un modo di comportarsi. E’ un modo di ragionare. E’ un modo orribile e purtroppo ordinario di osservare il mondo attraverso delle lenti particolari e distorte che ci portano a considerare la cultura del sospetto come se fosse una inevitabile e dolce compagna di viaggio e non un mostro infame contro il quale combattere con tutte le nostre energie.
La sentenza di assoluzione per Bruno Contrada (“Chi piagnucola per l’uomo innocente e il meccanismo infernale si legga le carte e se ci riesce si vergogni”, Marco Travaglio su Bruno Contrada, 16 aprile 2015) ci dice che i professionisti dell’antimafia hanno trasformato per anni e anni un reato vago e fumoso in una spregiudicata arma letale utilizzata in modo del tutto arbitrario contro alcuni sfortunati malcapitati che si sono ritrovati le vite distrutte grazie a sospetti e illazioni spacciati in modo vergognoso dai magistrati di turno e dai loro cagnolini al seguito nei giornali come formidabili e incontestabili prove schiaccianti. Ma lo stesso spirito con cui oggi alcuni magistrati spregiudicati utilizzano il principio del concorso esterno per trasformare i propri sulfurei teoremi in sentenze di condanna si trova, uguale uguale, dietro quella legge, orrenda, approvata due giorni fa alla Camera con la quale il governo non ha soltanto scelto di estendere il codice antimafia anche ai reati di corruzione e di concussione, ma ha scelto di far proprio il bagaglio culturale di un’Italia giustizialista e manettara che gioca con il populismo penale, che trasforma la lotta alla corruzione in uno spot elettorale, che sceglie di anticipare il processo alla fase delle indagini preliminari, che pretende di risolvere ogni problema sociale con l’aumento della repressione penale e che sceglie di utilizzare lo stato di emergenza come la giustizia ordinaria risposta al crimine.
Il codice antimafia, come ha ricordato in tempi non sospetti il professor Fiandaca sul nostro giornale, consente di inserire fra i possibili destinatari delle misure di prevenzione personali e patrimoniali, come se fossero dei mafiosi e dei camorristi, anche gli indiziati di numerosi reati contro la pubblica amministrazione (come il peculato) e in un certo senso è la monumentalizzazione della cultura del sospetto, di un khomeinismo giudiziario all’interno del quale in modo del tutto discrezionale, solo sulla base di un sospetto, le misure cautelari possono diventare delle condanne preventive, che lasciano spesso ferite indelebili sulla pelle di chi le ha subite. Luciano Violante, sul Mattino, unico giornale in Italia ad aver condotto insieme al Foglio una battaglia culturale contro l’orrore del codice antimafia (orrore che invece tutti gli altri giornali o hanno scelto di non denunciare, come il Corriere, o hanno scelto persino di cavalcare, come Repubblica), pochi giorni fa ha ricordato che “per come sono formulate le norme lasciano spazio eccessivo a possibili ingerenze arbitrarie da parte delle autorità pubbliche e dei giudici” e ha aggiunto quello che in pochi in Italia hanno il coraggio di dire: “Nel nostro paese esistono sulla corruzione solo cifre gonfiate dal fatto che si misura la percezione del fenomeno e non la realtà”.
La corruzione esiste, eccome se esiste, ma non esiste alcun dato certificato che permetta di considerarla un’emergenza diversa rispetto a quella che esiste in altri paesi del mondo, e persino d’Europa. Il Partito democratico, che pure avrebbe dovuto mostrare una certa sensibilità al tema del sospetto che diventa legge, ha deciso di portare avanti la legge – sostenuta a gran voce da un magistrato, Pietro Grasso; voluta a gran voce da un altro magistrato, Nino Di Matteo; richiesta a gran voce da un altro magistrato, Pier Camillo Davigo; reclamata a gran voce da un altro magistrato, Antonio Ingoria – e ha scelto di farsi qualche domanda sugli orrori contenuti nel codice solo quando è stato un altro magistrato a parlare e a sollevare qualche dubbio: Raffaele Cantone.
La politica che fa una legge spinta da un magistrato per non indispettire alcuni magistrati che si fa alcune domande solo quando è un altro magistrato che interviene. Se non è una repubblica giudiziaria questa… “La modifica che si vuole approvare al codice antimafia – ha detto Cantone – non è né utile, né opportuna e rischia persino di essere controproducente. Non è utile nei confronti delle organizzazioni mafiose che utilizzano la corruzione, perché in tali casi può certamente già utilizzarsi la normativa vigente. Rischia, invece, di essere persino controproducente, perché la legislazione antimafia ha retto rispetto ai dubbi di legittimità costituzionale e a quelli di contrasto alle convenzioni internazionali, proprio per il suo carattere eccezionale e per il fatto di essere rivolta a organizzazioni pericolose come le mafie; un’estensione così ampia anche a reati non mafiosi, per paradosso, potrebbe portare a rivedere queste posizioni e quindi rendere concreto il rischio di una declaratoria di illegittimità dell’intero impianto normativo, sguarnendo il campo dell’antimafia di un presidio che si è dimostrato molto importante”. Il codice antimafia, perdonateci il francesismo, è una boiata pazzesca che mette insieme il peggio della cultura giuridica italiana; ma è una boiata che in fondo non può che esistere in un paese come il nostro che da anni si rifiuta di affrontare con decisione una muffa grande come una casa sulla quale cresce da anni il velenoso fungo dell’antimafia. E qui, naturalmente, torniamo a Contrada.
Perché tra l’Italia che sceglie di non dire no al concorso esterno in associazione mafiosa e l’Italia che sceglie di non opporsi all’orrore del codice antimafia c’è una simmetria evidente. Non solo tra alcuni protagonisti delle due vicende (il caso vuole che Antonio Ingroia sia anche lo stesso magistrato che portò avanti l’accusa a Bruno Contrada e che il 19 gennaio del 1996 chiese la condanna a dodici anni per l’ex poliziotto italiano) ma anche tra alcuni tratti significativi che si intrecciano tra le due storie. La codificazione della cultura del sospetto presente nel codice antimafia in fondo è la stessa che si trova all’interno della tipologia di reato per il quale Bruno Contrada si è fatto ingiustamente dieci anni di carcere. Non lo dice solo il Foglio, da anni, ma lo dice una sentenza clamorosa, misteriosamente ignorata dai grandi giornali, che esattamente un anno e mezzo fa anticipò la decisione di oggi della Corte di Cassazione. E’ il 12 febbraio 2016 e il giudice delle indagini preliminari del tribunale di Catania, la dottoressa Gaetana Bernabò Distefano, emette un proscioglimento su un indagato finito sotto inchiesta per concorso esterno in associazione mafiosa. Il giudice mette insieme una pronuncia sul tema della Corte Costituzionale (numero 48/2015) e la sentenza Contrada della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (che già nel 2015 sanzionò l’Italia per la condanna inflitta a Bruno Contrada per concorso esterno in associazione mafiosa) e sceglie di porsi un quesito: alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale, “può dirsi esistente nell’ordinamento giuridico italiano il cosiddetto concorso esterno in associazione mafiosa”. Il giudice, clamorosamente, dice di no, e spiega perché sulla base delle due sentenze oggi non si dovrebbe più parlare di concorso esterno in associazione mafiosa.
“La creazione del cosiddetto concorso esterno, appare (purtroppo) una figura che si potrebbe definire quasi “idealizzata” nell’ambito di un illecito penale così grave per la collettività. Invero, la figura del concorso esterno è stata definita quale “mezza-mafia” con ciò volendosi intendere che un professionista, o addirittura un appartenente alle istituzioni, non possa ontologicamente essere considerato un mafioso, ma un mezzo mafioso si. Un qualcosa di mafia c’è in lui ma non così tanto da volerlo considerare inserito nella compagine criminosa mafiosa, tanto che nei suoi confronti non scatta la presunzione assoluta ai fini della custodia in carcere, per come indicato dalla sentenza Corte Cost., n. 47-2015”. Quella sentenza avrebbe dovuto scatenare il finimondo, aprire un dibattito sul vero reato di tortura che coincide con la trasformazione di fragili teoremi in prove schiaccianti, far discutere i giuristi, i magistrati e i politici, costringere gli osservatori dei grandi giornali a mettere in fila una serie di ragionamenti utili per denunciare l’orrore della trattativa stato-antimafia cialtrona. Invece un anno e mezzo dopo siamo ancora qui. A fare i conti con un paese che ogni giorno sperimenta gli orrori della gogna e della codificazione della cultura del sospetto e che nonostante questo non ha il coraggio di dire la verità sulla vergogna di una repubblica giudiziaria fondata sulle manette dove, come dice Cantone, abbondano gli impuniti professionisti dell’antimafia che utilizzano il brand della lotta alla mafia per ragioni personalistiche. O peggio, aggiungiamo noi, per fare politica senza dover necessariamente scendere in campo.