Il metodo Woodcock e le storture dell'ordinamento giudiziario
La politica si è lasciata influenzare da una magistratura che vuole coniugare l’allarme-mafia con l’allarme-corruzione. Chi fa le leggi davvero?
Recenti vicende, giudiziarie e parlamentari, convergono nel sollecitare qualche considerazione sull’attuale modo d’atteggiarsi dei rapporti tra politica, magistratura e sistema mediatico. A ben vedere, emergono in proposito sia elementi di continuità, sia segnali di potenziale discontinuità invero già messi in evidenza da Claudio Cerasa in un articolo del 5 luglio che prendeva spunto da due casi senz’altro sintomatici, e che perciò vale la pena riprendere: da un lato, le indagini della procura romana sul pubblico ministero napoletano Woodcock nell’ambito della nota vicenda Consip; dall’altro, il dibattito occasionato dall’approvazione in Senato della riforma del codice antimafia.
L'indagine romana sul pm Woodcock e due culture magistratuali in conflitto "oggettivamente incompatibili"
Cominciando dal primo caso, non è superfluo ribadire la novità – anche simbolica – di una procura che, nell’indagare sui metodi di un’altra procura, intende far luce anche sul possibile ruolo attivo avuto dal pm inquirente rispetto alla diffusione di notizie riservate alla stampa. Come spiegare questa inedita volontà di scovare i responsabili di un fenomeno così diffuso e tollerato come la fuga di notizie? Nei primi commenti, sono state avanzate anche ipotesi più o meno dietrologiche alludenti a possibili fattori politici di condizionamento, o a dinamiche conflittuali interne alle procure di Roma e Napoli. Ma non sono mancate ipotesi esplicative più impegnative a livello addirittura sistemico, come ad esempio quella – prospettata da Carlo Bonini su Repubblica dello scorso 28 giugno – che fa leva sulla contrapposizione tra “due culture della giurisdizione agli antipodi”, rispettivamente rappresentate da un modello-Pignatone rispettoso della più rigorosa legalità processuale, e da un modello-Woodcock invece assai disinvolto nella raccolta delle prove, nell’utilizzazione della polizia giudiziaria e nello sfruttamento mediatico delle indagini: queste due culture magistratuali in conflitto (argomenta sempre Bonini), mentre nel ventennio dell’emergenza berlusconiana sarebbero state costrette a convivere per una sorta di stato di necessità politico-istituzionale di fronte ai rischi di deriva democratica e alla “manomissione sistematica delle regole del processo”, nell’attuale situazione politica disordinata, priva di padroni e di bussola, risulterebbero “oggettivamente e semplicemente incompatibili”. A prescindere dal suo merito intrinseco, una spiegazione come questa presuppone l’idea che gli orientamenti della prassi giudiziaria risentano sensibilmente, al di là dei principi e delle regole di diritto, del quadro politico generale e delle mutevoli valutazioni di necessità od opportunità che di volta in volta vi si riconnettono. Questa convinzione – peraltro diffusa anche a prescindere dagli schieramenti – sembra per un verso realistica, ma entra in contraddizione con alcuni postulati che per altro verso stanno, o dovrebbero stare a cuore ai moltissimi difensori (almeno a parole!) dello Stato democratico di diritto: com’è intuibile, si tratta dei principi della divisione dei poteri e del vincolo dei giudici alla sola legge, i quali dovrebbero garantire la tendenziale autonomia della funzione giudiziaria dalla politica. Se così è, l’enfatizzare – come fanno Bonini e i molti che opinano nello stesso senso – la tesi che la legalità processuale costituisce una variabile dipendente dal carattere emergenziale o meno della situazione politica contingente, finisce di fatto con l’avallare quella subordinazione della giustizia alle esigenze della politica che in linea teorica si dovrebbe invece scongiurare.
Stiamo assistendo davvero a una reazione alla giustizia mediatica, alla cultura del sospetto e al protagonismo dei magistrati-star?
Proponendo nell’articolo che abbiamo richiamato all’inizio una chiave di lettura nella sostanza analoga ma meno complicata, e – direi – di segno senz’altro ottimistico, Claudio Cerasa dal canto suo ravvisa nell’indagine romana sul pm Woodcock l’attesa reazione – finalmente dall’interno stesso della magistratura – alla giustizia mediatica, alla cultura del sospetto e al protagonismo dei magistrati-star. Il che, a suo giudizio, farebbe il paio con le reazioni critiche di significato equivalente manifestate (oltre che da alcuni giuristi accademici) da una parte qualificata della magistratura contro l’estensione legislativa della confisca preventiva antimafia ai reati di corruzione: estensione caldeggiata invece, e non a caso, da altra parte della magistratura specie antimafia e, con particolare enfasi, da quella celebre schiera di magistrati di orientamento giustizialista-populista ostinata nel reclamare una indifferenziata assimilazione normativa tra mafia e corruzione, nel presupposto drammatizzante – ma in realtà finora indimostrato – che i due fenomeni ormai ampiamente convergano. In effetti, anche a mio avviso la modifica del codice antimafia assume rilievo non soltanto per diagnosticare gli atteggiamenti e orientamenti in atto rinvenibili all’interno della magistratura, ma anche per comprendere attraverso quali modalità e percorsi le forze politiche di maggioranza oggi concepiscono le riforme penali da portare avanti.
La politica vuole dare ai cittadini un segnale politico di rafforzamento della lotta al presunto mix mafia-corruzione
Premesso che la politica è sempre meno in grado di fare da sola nel progettare riforme, e ciò vale anche per il settore penale, la domanda è questa: da quale fonte essa ha originariamente attinto il suggerimento di rendere applicabile la confisca allargata antimafia al soggetto indiziato anche di un solo reato contro la pubblica amministrazione? In realtà, è stata la Commissione parlamentare antimafia ad avere per prima – se ben ricordiamo – questa idea, recependola proprio da quella nota parte della magistratura antimafia che suole privilegiare, più che l’osservanza dei principi giuridici di fondo e l’equilibrio tra efficacia repressiva e garanzie, una logica sostanzialistica di risultato nella lotta a tutto campo alla criminalità. Che poi le proposte di legge ispirate a questo punitivismo grezzo e onnivoro, comunque potenzialmente redditizio oggi in termini di consenso elettorale, risultino confuse e approssimative, o per di più in contrasto con i princìpi costituzionali e con i princìpi di garanzia elaborati dalla Corte europea di Strasburgo, pazienza! Secondo i politici che ne sono fautori, e i magistrati favorevoli all’estremismo repressivo, la nuova norma sulla confisca antimafia ai corrotti necessiterebbe infatti di essere definitivamente approvata in ogni caso, anche se difettosa e a rischio di incostituzionalità: proprio per dare ai cittadini un segnale politico di rafforzamento della lotta al presunto mix mafia-corruzione e per dotare quei magistrati che ne hanno fatto appositamente richiesta di un un’arma in più nella loro attività di contrasto. E, di fronte all’obiezione che potrebbe trattarsi di un’arma spuntata appunto perché mal costruita e di dubbia legittimità, non sono mancate da parte di politici pro-riforma, come lo stesso guardasigilli Orlando, o ad esempio di un magistrato antimafia (oggi consigliere Csm) come Antonio Ardituro reazioni volte a minimizzare il problema, in base a questa comune e ottimistica convinzione (cfr. le rispettive interviste a Repubblica del 7 e dell’8 luglio): che cioè spetta in ogni caso alla Cassazione, ed eventualmente alla Corte costituzionale, fornire a posteriori l’interpretazione più precisa e corretta delle novità normative approvate dal Parlamento, specie quando queste risultano formulate in maniera generica o approssimativa, e appaiono perciò – aggiungiamo noi – simili a prodotti semilavorati o a semplici linee-guida che spetta inevitabilmente ai giudici specificare. Ma ci si accorge che, delegando di fatto sempre più alla Cassazione il compito di dare un volto e un significato definiti e giuridicamente legittimi a quelle nuove norme che la parte oltranzista della magistratura d’accusa richiede, e che il ceto politico dal canto suo non riesce a formulare in maniera puntuale e ineccepibile, si assiste alla morte del modello di ordinamento consacrato nella nostra Carta costituzionale perché – in definitiva – è il potere giudiziario che finisce, così, con l’esercitare nella sostanza la vera funzione legiferante?
Se il potere giudiziario finisce con l'esercitare la vera funzione legiferante si assiste alla morte del nostro modello costituzionale
Ma il caso dell’estensione della confisca antimafia assume un rilievo emblematico nell’evidenziare le distorsioni (anche costituzionali) dell’attuale politica penale per una ragione ulteriore, già accennata: i politici favorevoli a questa riforma hanno cioè deciso di far propria una richiesta proveniente dalla corrente estremista dei magistrati antimafia, ma non condivisa da altri esponenti del mondo della magistratura non meno autorevoli ed esperti in materia di crimine organizzato e di contrasto della corruzione. Se così è, la politica – priva, ribadiamo, di conoscenze e competenze proprie per prendere partito con autonoma capacità critica – si è lasciata influenzare non da una magistratura unanime, ma da quella parte di essa più propensa a coniugare l’allarme-mafia con l’allarme-corruzione, senza che peraltro a tutt’oggi si disponga di rigorosi riscontri empirici circa il livello di reale fondatezza di questo allarme congiunto: così stando le cose, le forze di maggioranza hanno dunque finito con l’accordare una sorta di preferenza fideistica al pregiudiziale estremismo drammatizzante di alcuni magistrati-star, ignorando o sottovalutando l’esistenza di non poche e autorevoli voci critiche all’interno di quei settori della magistratura che hanno, forse, avuto il torto – in verosimile omaggio a esigenze di riserbo e di rispetto della autonomia del Parlamento – di non opporsi sin dall’inizio in forma pubblica agli orientamenti dei colleghi di opinione opposta. Proprio in considerazione della corriva disponibilità delle attuali forze politiche di governo a recepire in particolare le indicazioni e le richieste provenienti dai settori più estremisti e mediaticamente esposti del mondo giudiziario, sarebbe necessario che d’ora in avanti al dibattito pubblico in materia di giustizia penale la magistratura partecipasse attivamente dando voce a tutte le posizioni presenti al suo interno. E sarebbe altresì indispensabile, in vista di un miglioramento qualitativo della politica penale, che il ceto politico nel suo insieme acquisisse almeno i fondamenti basilari di una cultura penalistica all’altezza delle sfide del tempo presente e, prima di deliberare, si confrontasse criticamente con gli esperti di ogni tendenza e provenienza.
L'editoriale del direttore