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Ingroia, Travaglio e la tela disfatta del processo Contrada

Guido Vitiello

Più che di Sciascia, l’ex pm sembra un personaggio di Brancati. Intanto, nonostante le ultime batoste prese, il Grande Giornalista sfoggia la schiena dritta e impazzisce

Conservo il ritaglio di un’intervista di quando Antonio Ingroia era candidato presidente del Consiglio. Parlava di disponibilità alle alleanze: “Io faccio come quel bel libro di Sciascia: ‘Porte aperte’. Le lascio aperte le mie porte in politica, così come ho fatto sempre in Procura”. Inarrivabile Ingroia. Aveva letto solo il titolo, e neppure l’aveva capito. E dire che l’editore di un suo libro di memorie si era spinto a dire, nel comunicato stampa, che “da potenziale personaggio di un’opera di Leonardo Sciascia” Ingroia era diventato “riconoscibile epigono del grande scrittore siciliano”. Dopo che la Cassazione ha disfatto la tela lungamente intessuta del processo Contrada, mi viene semmai da pensare che il flemmatico ex magistrato avrebbe potuto essere un personaggio di Vitaliano Brancati; e non il bell’Antonio, come l’onomastica suggerisce, ma uno dei giovani protagonisti degli “Anni perduti”, un romanzo degli anni Trenta (promemoria per Ingroia: sono appunto gli anni delle “porte aperte”). Questi tre amici s’infiammano all’idea di costruire una torre panoramica a Natàca, anagramma appena aggiustato di Catania, e l’impresa li riscuote dalla noia. Ma a cose fatte scoprono che non potranno inaugurarla, per via di un ordine del Municipio vecchio di quattordici anni, emesso cioè ben prima che si lanciassero in quel progetto grandioso: “Sotto un fascio di registri si nasconde un foglietto giallo, cinque paroline, una legge inviolabile, qualcosa che, apparendo all’ultimo momento, ci dice che il nostro lavoro è stato un errore, che noi abbiamo lavorato in una direzione vietata e sbagliata”. Ingroia ha pescato lui pure il suo foglietto giallo: tutta quella torre pericolante fatta di gradi di giudizio stratificati su cui si reggeva il suo massimo trionfo giudiziario, gliel’hanno buttata giù con un soffio, stabilendo che non aveva neppure il permesso di cominciare i lavori.

Chi avrebbe potuto senza dubbio trovare una particina in un romanzo di Sciascia è invece il compagno di ombrellone di Ingroia, Marco Travaglio. Quando il direttore del Fatto era, per dirla con Arbasino-Berselli, una bella promessa (il passaggio di fase è arrivato presto), le sue apparizioni mi riportavano continuamente alla memoria una pagina del “Cavaliere e la morte”, il penultimo libro di Sciascia. E’ quella in cui entra in scena una figura imperiosa, che spicca sui cronisti assiepati nei corridoi della Questura: “Tra loro, rampante e schiumante come un purosangue capitato in una stalla di brocchi, era il Grande Giornalista. Dai suoi articoli, cui settimanalmente i moralisti di nessuna morale si abbeveravano, gli era venuta fama di duro, di implacabile; fama che molto serviva ad alzarne il prezzo, per chi si trovava nella necessità di comprare disattenzioni e silenzi”.

 

Il Grande Giornalista è prima di tutto una postura, un rictus, che ha per fondamento la pretesa di collocarsi al di sopra dei vizi dell’umanità comune; e mantenere a lungo una posa tanto innaturale è faticoso, specie quando mille bastonate – l’affaire Raggi-Romeo, quello Woodcock-Scafarto-Lillo, lo sfacelo del processo trattativa e, buon ultimo, Contrada – ti spingerebbero ad assumere la normale curvatura degli umani, congedando l’illusione mortuaria della schiena dritta. Ma proprio in momenti come questi, chi ha puntato tutto su quella postura anchilosata e su quel rictus sarcastico non può permettersi di abbandonare l’una e l’altro, è costretto anzi a esasperarli, a difenderli come un’ultima trincea dell’identità. Così, a farla breve, Travaglio sta impazzendo. “Meno male che almeno qualcuno ce lo siamo levato dai coglioni”, ha detto un paio di giorni fa parlando di Gardini, di Cagliari e dei suicidi di Mani pulite. E quanto più affila questo moralismo sadico, perfettamente amorale e fieramente abominevole, tanto più i suoi ammiratori si inchinano alla sua terroristica virtù. Ma anche qui, a ben vedere, un precedente letterario c’è: “Fomà Fomìc! Chi era costui?”. Per saperlo Travaglio dovrebbe leggere un altro romanzo di Sciascia, “Candido”. Non soltanto il titolo, però: ché poi magari lo scambia per un libro sul Candido di Pisanò…