La magistratura ha abbandonato Falcone. L'ultima accusa di Borsellino
Il discorso del magistrato un mese dopo la strage di Capaci
Roma. Grazie a Radio radicale la parola torna a Paolo Borsellino. Basta esegeti e scimmiottatori. E’ il 25 giugno 1992, sono trascorsi trentadue giorni dalla strage di Capaci. Ne mancano ventiquattro all’eccidio di via D’Amelio. “Sono venuto questa sera per ascoltare perché, mai come ora, è necessario che io ricordi a me stesso e a voi che sono un magistrato. E poiché sono un magistrato debbo essere anche cosciente che il mio primo dovere non è quello di utilizzare le mie opinioni e conoscenze partecipando a convegni o dibattiti, ma esclusivamente per il mio lavoro”. La platea applaude, la commozione è palpabile. Borsellino fa professione di silenzio, in realtà è mosso da una irrefrenabile voglia di parlare.
“Giovanni Falcone è andato al ministero di Grazia e giustizia non perché aspirasse a trovarsi nella capitale in un posto privilegiato, non perché si fosse innamorato dei socialisti, non perché si fosse innamorato di Claudio Martelli. Ma perché, a un certo punto della vita, ritenne da uomo delle istituzioni di poter continuare a svolgere a Roma un ruolo importante e, nelle sue convinzioni, decisivo nella lotta alla criminalità mafiosa”. Borsellino si sente un superstite, chissà fino a quando. Il procuratore di Marsala arriva in ritardo all’assemblea dal titolo “Ma è solo mafia?”, promossa da La Rete. Radio radicale ripropone i trenta minuti del suo intervento, un atto d’accusa contro il corporativismo togato che ha emarginato e vilipeso Giovanni Falcone. Così, in mezzo allo strepitio scomposto di mezzi figuri che oggigiorno scimmiottano il suo esempio e tentano, senza successo, di accreditarsi come suoi degni eredi, emerge l’imponente normalità di un uomo che di sé dice: “Non sono un eroe né un kamikaze ma una persona come tante altre”. “In questo momento – prosegue Borsellino – oltre che magistrato, io sono testimone perché avendo vissuto a lungo la mia esperienza di lavoro accanto a Giovanni Falcone, avendo raccolto tante sue confidenze, non voglio dire più di ogni altro perché non voglio imbarcarmi nella gara di questi giorni per stabilire chi fosse più amico di Giovanni Falcone, devo riferire anzitutto all’autorità giudiziaria gli elementi che porto dentro di me. L’evento che ha posto fine alla vita di Giovanni Falcone segna pure la fine di una parte della mia vita”. Per l’ex capo del pool antimafia Antonino Caponnetto, Falcone comincia a morire nel gennaio 1988. Borsellino concorda con lui. “Con ciò non intendo dire che la strage del ’92 sia il naturale epilogo di questo processo di morte. Ma quel che dice il giudice Caponnetto è vero perché oggi che noi tutti ci rendiamo conto della statura di quest’uomo ci accorgiamo di come il paese, lo stato, la magistratura – che forse ha più colpe di ogni altro – cominciò a farlo morire nel gennaio 1988”. Borsellino si riferisce alla bocciatura, decisa dal Consiglio superiore della magistratura, della candidatura di Falcone per l’ufficio Istruzione del tribunale di Palermo. 10 voti per Falcone, 14 per il concorrente Antonino Meli. “Non appena Falcone presentò la sua candidatura per succedere a Caponnetto, qualche giuda s’impegnò da subito a prenderlo in giro. Nel giorno del mio compleanno il Csm ci fece questo regalo, preferendogli l’altro candidato con motivazioni risibili. Falcone, dimostrando l’altissimo senso delle istituzioni e la volontà di continuare a svolgere il lavoro che aveva inventato, cominciò a lavorare con Meli nella convinzione che, nonostante lo schiaffo subìto dal Csm, avrebbe potuto proseguire nella sua professione. E continuò a crederlo. Io ero invece più scettico, ormai osservavo i fatti da un osservatorio abbastanza privilegiato essendo stato trasferito a Marsala, sapevo che nel volgere di pochi mesi lo avrebbero distrutto. Ciò che più mi addolorava è che Giovanni Falcone sarebbe morto professionalmente nel silenzio, senza che nessuno se ne accorgesse. Perciò denunciai pubblicamente ciò che stava accadendo a Palermo: se deve essere eliminato, pensai, l’opinione pubblica lo deve sapere. Il pool antimafia deve morire davanti a tutti, non in silenzio”.
Fu così che nel settembre 1988, sotto la pressione dell’opinione pubblica, il Csm rivide in parte la sua posizione e il pool antimafia, seppur zoppicante, fu rimesso in piedi. “La protervia del consigliere istruttore, – incalza Borsellino – l’intervento nefasto della Cassazione, iniziato allora e proseguito fino a ieri, continuarono a far morire Falcone. Nonostante quel che è accaduto in Sicilia, la Suprema corte continua sostanzialmente ad affermare che la mafia non esiste”. Febbraio 1991, il guardasigilli Martelli chiama Falcone a dirigere gli Affari penali al ministero di via Arenula. “Alla presenza dei colleghi Leonardo Guarnotta e Giuseppe Ayala, Falcone tirò fuori l’ordinamento interno del ministero e, scorrendo i singoli punti, mi illustrò quel che egli riteneva di poter fare dalla nuova postazione per la lotta alla criminalità mafiosa. Anche io talvolta ho assistito con un certo disagio alla vita o ad alcune manifestazioni della vita di un magistrato improvvisamente sbalzato in una struttura gerarchica diversa da quella giudiziaria. Si tratta di una situazione nuova, di un lavoro nuovo, di vicinanze nuove. Tuttavia Giovanni Falcone si trasferì a Roma restando con la mente a Palermo. In fin dei conti, il bilancio, se vogliamo farlo, riguarda principalmente la creazione di strutture che, a torto o a ragione, egli riteneva funzionali nella lotta alla criminalità organizzata. Falcone cercò di riprodurre a livello nazionale e con la legge dello stato quelle esperienze del pool antimafia nate artigianalmente, senza che la legge le prevedesse e, anche nei momenti di maggiore successo, le sostenesse. Questa era la superprocura. Anche io espressi dapprima alcune perplessità, fui tra i firmatari di una lettera critica verso il progetto predisposto dal collega Marcello Maddalena di Torino. Eppure non ho mai dubitato, neanche per un istante, che l’obiettivo ultimo di Falcone fosse quello di tornare a fare il magistrato. Non a caso l’organizzazione mafiosa, quando ha preparato e attuato l’attentato del 23 maggio, ha scelto l’esatto momento in cui Falcone, nonostante la violenta opposizione di buona parte del Csm, era ormai a un passo dal diventare direttore nazionale antimafia. Si trattava di indiscrezioni che io conoscevo, che avevo comunicato a lui, che egli sapeva e che ritengo fossero note anche al di fuori del palazzo. Si può dire che egli si prestò alla creazione di uno strumento che metteva in pericolo l’indipendenza della magistratura, si può anche dire che si avvicinò troppo al potere politico, ma non si può negare che Giovanni Falcone, in questa sua breve, anzi brevissima, esperienza ministeriale, lavorò segnatamente per tornare a fare al più presto il magistrato. E’ questo che gli è stato impedito. Perché è questo che faceva paura”.