Cosa lega il modello Scarantino al modello Ciancimino (e al metodo Di Matteo)
Note a margine su Paolo Borsellino e un pm ministro in pectore del Movimento 5 Stelle
Roma. Pochi giorni prima delle commemorazioni per il 25esimo anniversario della morte di Paolo Borsellino, il magistrato ucciso dalla mafia con la sua scorta, la corte di Appello di Catania ha assolto 9 persone ingiustamente condannate, alcune di esse all’ergastolo, proprio per la strage di via D’Amelio. Nove innocenti, che hanno passato dodici anni al 41 bis, a causa delle false dichiarazioni del pentito Vincenzo Scarantino su cui i magistrati della procura di Caltanissetta avevano costruito l’accusa, confermata poi da altri colleghi giudici. Il più grande errore giudiziario o il più colossale depistaggio della storia italiana, già evidente nel 2008 quando un mafioso di ben altro calibro come Gaspare Spatuzza ha fornito una versione accompagnata da prove e riscontri, è rimasto molto sullo sfondo. Questo silenzio, nel pieno del rituale delle celebrazioni, è stato rotto in maniera fragorosa da una persona solitamente taciturna come Fiammetta Borsellino, la figlia del giudice ucciso. Come abbiamo onorato i nostri morti? “Questo abbiamo avuto: un balordo della Guadagna come pentito fasullo – ha dichiarato al Corriere della Sera – e una Procura massonica guidata all’epoca da Gianni Tinebra che è morto, ma dove c’erano Annamaria Palma, Carmelo Petralia, Nino Di Matteo, altri…”. Di Matteo è l’uomo più scortato d’Italia, il pm del processo sulla trattativa stato-mafia, che a Caltanissetta si occupò dell’inchiesta sulla strage di Via D’Amelio. Il balordo della Guadagna è appunto Scarantino, ritenuto l’organizzatore del furto della 126 e considerato teste chiave per la procura. Ma Scarantino non era un esponente di spicco di Cosa nostra, era un picciotto semianalfabeta, di bassissimo livello intellettuale, tossicodipendente. Eppure i magistrati ritennero questo ladro di gomme un personaggio chiave della strategia stragista della mafia. E ritennero credibili le sue confessioni, nonostante magistrati come Ilda Boccassini avessero messo nero su bianco che era completamente inattendibile, e anche dopo le ripetute ritrattazioni in cui lo stesso Scarantino dichiarava di essere stato costretto a dire il falso. I pm credevano talmente alle false dichiarazioni del pentito che le smentite non interessavano, anzi diventavano una conferma: “La ritrattazione dello Scarantino ha finito per avvalorare ancor di più le sue precedenti dichiarazioni”, disse in una requisitoria il pm Nino Di Matteo. “Ritenevamo che le dichiarazioni di Scarantino fossero genuine”, ha detto più recentemente.
Non lo erano, erano contraffatte. Ma c’è una giustificazione che viene data, almeno per quanto riguarda Di Matteo. Era giovane e quello era una delle sue prime inchieste così importanti, si dice. Un errore di gioventù, insomma, a cui d’altronde non sono sfuggite decine di altri magistrati con maggiore maturità e anni di servizio.
Il problema però ora si pone sul lato del processo sulla trattativa stato-mafia in corso a Palermo, di cui il pm e possibile prossimo ministro a cinque stelle rappresenta l’accusa. Perché da un lato, se il depistaggio sulla strage di Via D’Amelio ha a che fare con la Trattativa, lo stesso Di Matteo ne fu vittima e strumento, visto che inconsapevolmente portò avanti la falsa versione di Scarantino. Ma dall’altro ci si aspetterebbe che Di Matteo il vecchio, proprio sulla base dell’esperienza accumulata negli anni in cui ha dato credito a Scarantino, sia più accorto nella gestione dei testimoni e nel controllo delle loro deposizioni. E invece Massimo Ciancimino, che è il superteste della Trattativa, finora si è distinto per calunnie, documenti taroccati, ricostruzioni improbabili, racconti fantasiosi e detenzione di dinamite. Nell’unica sentenza sulla Trattativa, quella di assoluzione nei confronti di Calogero Mannino, la giudice Marina Petruzzella parlando del superteste evidenzia “l’assenza di logica e di coerenza delle dichiarazioni di Massimo Ciancimino sulla trattativa e sul papello”, sottolinea “la palese strumentalità del suo atteggiamento processuale, la gravità degli artifici adoperati per rendere credibili le sue sensazionali rivelazioni e giustificare le molteplici contraddizioni e per tenere sulla corda i pubblici ministeri, col protrarre la promessa di consegnar loro il papello, carpirne così la considerazione e mantenere sempre alta su di sé l’attenzione generale, accompagnato nel suo luminoso cammino dalla stampa e dal potente mezzo televisivo, stuzzicati con altrettanta astuzia”. Da Scarantino a Ciancimino il passo è breve.