La Rai nella trappola di Mafia Capitale
La mafia a Roma è fiction, ma anche docu-fiction. A settembre arriva su Rai Tre (ora senza Bignardi) un documentario sull’inchiesta. Il titolo cambia, ma il rischio pappagalli delle procure resta. Indagine su un grande test per il servizio pubblico
Nelle aule del tribunale di Roma, la fiction di Mafia Capitale si è conclusa pochi giorni fa con il risultato che sappiamo. Venerdì scorso il giudice Rosanna Ianniello ha confermato in primo grado parte delle tesi accusatorie portate avanti dalla procura di Roma (le condanne ammontano in tutto a 250 anni contro gli oltre 500 richiesti dai pm) e ha cancellato completamente per tutti gli imputati l’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso. La corruzione e la criminalità nella Capitale d’Italia sono un fenomeno serio, come purtroppo capita da quasi 2000 anni a Roma, più o meno dai tempi delle arringhe di Cicerone contro l’ex pretore della Sicilia Gaio Licinio Verre (70 avanti Cristo), ma la mafia no e stando alla sentenza del giudice Ianniello era solo una fiction. In molti, nonostante la sentenza di primo grado, hanno continuato a dire che la mafia a Roma esiste anche se il tribunale ha sentenziato che non esiste ed è probabile che la procura di Roma, una volta lette le motivazioni, si rivolgerà in appello per provare a ribaltare la decisione del giudice Ianniello.
Le motivazioni della sentenza arriveranno entro la fine di ottobre ma ancora prima di sapere se la procura di Roma presenterà ricorso per far risorgere in appello la “Mafia Capitale” nell’ambito dell’inchiesta “Mondo di Mezzo” (l’ordinanza di custodia cautelare vidimata il 24 novembre del 2014 dal giudice per le indagini preliminari Flavia Costantini si chiamava effettivamente Mondo di Mezzo ma all’interno di quell’ordinanza l’espressione “Mafia Capitale” viene usata dal giudice 87 volte e quell’espressione dunque non è un’invenzione dei giornalisti) ci sarà un’occasione molto importante in cui lo spirito di mafia capitale tornerà a vivere fuori (più o meno fuori) dalle aule del tribunale. E l’occasione diventerà un test di prova significativo per capire anche che idea ha di servizio pubblico non solo il direttore generale della Rai, Mario Orfeo, ma anche il futuro direttore di Rai Tre, che nei prossimi giorni prenderà il posto di Daria Bignardi, che proprio ieri ha rassegnato le sue dimissioni. Il test coincide con una docu-fiction molto attesa prodotta da Magnolia per la Rai, in cui il regista Claudio Canepari, insieme con Clelio Benevento e il giornalista Giovanni Bianconi, metteranno in scena sei puntate finalizzate, “attraverso materiale originale d’indagine (intercettazioni ambientali, testimonianze dei protagonisti), ricostruzioni in fiction e repertorio”, a “ricostruire gli eventi che hanno caratterizzato il clima di corruzione e violenza che ha destabilizzato Roma nei tempi recenti, diffusamente conosciuto come sistema Mafia Capitale”.
Le frasi che leggete tra virgolette sono passaggi contenuti nel lancio della docu-fiction dello scorso 28 giugno nei palinsesti della Rai e in quell’occasione il documentario fu presentato con il titolo che immaginate: naturalmente, “Mafia capitale”. La ragione per cui la docu-fiction assume oggi un significato importante, anche rispetto a quello che può avere la parola “servizio pubblico”, non sfuggirà e non c’è dubbio che vedere le sei puntate di Claudio Canepari sarà interessante per capire se la Rai riuscirà a mettere a segno una missione che sembra quasi impossibile: raccontare un’inchiesta nei dettagli senza essere semplicemente la cassa di risonanza delle tesi di una procura e senza dimenticare che l’articolo 27 della Costituzione prevede che ciascun imputato non debba essere considerato colpevole fino alla sentenza definitiva di condanna, cosa di per sé non facile considerando che l’inchiesta che verrà descritta si trova ancora al primo grado di giudizio.
La scelta frettolosa di presentare la docu-fiction con il nome di “Mafia Capitale” (la mafia a Roma non c’è, ma in molti, per non far crollare le azioni dell’industria dell’antimafia, continueranno a far finta che la mafia c’è) sembra tradire un’intenzione rischiosa: raccontare il mondo di mezzo usando direttamente e verrebbe da dire esclusivamente il lessico suggerito dai giudici dell’inchiesta. E’ davvero questo che farà il servizio pubblico? Davvero la Rai sosterrà la tesi che a Roma c’è la mafia anche se un giudice ha detto che la mafia è una fiction? Abbiamo tentato di approfondire la questione provando a parlare con alcuni dei protagonisti della fiction e qualcosa abbiamo ricostruito. Magnolia, cordialmente, ci fa sapere di non aver nulla di ufficiale da dire sulla sua docu-fiction. Il regista, Canepari, non vuole anticipare nulla e non risponde al telefono. Lo stesso fa Benevento. Il primo a rispondere al telefono è Giovanni Bianconi, giornalista del Corriere, che con gentilezza dice di non poter dire nulla sulla docufiction, tranne una cosa: “E’ un documentario, non c’è una tesi”. Senza tesi, ok. Chiamiamo la Rai. Risponde Daria Bignardi, la mattina, prima di dimettersi, ci dice che il documentario sarà in onda intorno al 14 settembre e ci indirizza a Tinni Andreatta, capo delle fiction Rai. E qui arriva la prima notizia. La docu-fiction, ci dice Andreatta, non si chiamerà più Mafia Capitale, sospiro di sollievo, ma, aggiunge, lei, si chiamerà in un modo diverso: “I mille giorni di Mafia Capitale”. Brand che vince non si cambia, avrebbe detto Vujadin Boškov, ma la Andreatta ci tiene a spiegare il senso della scelta della Rai, e noi apriamo il microfono. “Siamo nella contemporaneità, entriamo dentro ciò che è avvenuto e sta avvenendo attraverso il linguaggio straordinario della docufiction e sono particolarmente orgogliosa del grande equilibrio e rigore con cui noi e la produzione abbiamo gestito una materia tanto complessa. La docu-fiction è un genere particolarmente articolato. I pezzi che lo compongono sono fatti di materiali diversi editi e inediti – filmati e audio originali prodotti delle forze dell’ordine, materiali di repertorio, interviste, ricostruzioni visive, contributi dei telegiornali – montati per creare un percorso narrativo avvincente. In particolare il modello stilistico è quello di “Caccia al Re”, una docufiction sulla cattura di Provenzano diretta, come in questo caso, da Claudio Canepari”. Una cattura avvenuta non è però come un’inchiesta in corso e in un paese in cui la cronaca giudiziaria tende a essere spesso il copia-incolla delle tesi di una procura sarà interessante capire cosa intende la Rai con la parola “equilibrio”. “Tutti questi mattoni – continua Andreatta – vengono assemblati insieme cercando di raggiungere diversi obiettivi. Raccontare un evento, uno o più personaggi reali attraverso uno stile visivo che faccia entrare lo spettatore normale in storie che conosce solo a pezzi e bocconi. Offrirgli tutti i punti di vista disponibili del racconto scelto, senza mai dare una chiave di lettura privilegiata, preconfezionata o ideologica, per permettergli di entrare nel racconto, come nelle fiction, e aderire alla storia con la sua sensibilità. Nel caso di storie legate a eventi giudiziari aspettare il primo grado del processo per permettere di articolare le motivazioni dell’accusa e della difesa. Utilizzare la voce off come guida di un racconto complesso (per riassumere, ricapitolare, spiegare, legare) affinché la docufiction possa essere appassionante e popolare, comprensibile e fruibile dal maggior numero di spettatori. E’ nello statuto di questo genere che io sento così vicino al servizio pubblico, cercare di ricreare il mondo in modo più oggettivo possibile, al contrario del racconto di fiction dove il punto di vista di uno o più personaggi condiziona la fruizione del racconto”. Ringraziamo la Andreatta e proviamo a concentrarci per qualche minuto su quella che ci sembra essere l’espressione chiave: “Equilibrio e rigore”. Per esserci equilibrio e rigore, come dice la Andreatta, occorre offrire tutti i punti di vista disponibili del racconto scelto. Un punto di vista gli autori della docu-fiction lo hanno ascoltato e quel punto di vista coincide con quello offerto dai magistrati della procura di Roma, dai quali gli autori del documentario hanno ricavato alcuni riscontri su una serie di passaggi considerati delicati.
“Equilibrio e rigore”
Il secondo punto di vista, “in nome dell’equilibrio e del rigore”, avrebbe dovuto coincidere con quello offerto da un lato dagli avvocati della difesa, i cui difesi dovrebbero essere considerati innocenti fino a prova contraria, e dall’altro dal giudice Ianniello, che una settimana fa ha incidentalmente cancellato con un tratto di penna il logo “mafia” dall’inchiesta su Mafia Capitale. Al momento, secondo quanto ricostruito dal Foglio, gli autori dei “Mille giorni di Mafia Capitale” non hanno sentito il bisogno di contattare né il giudice Ianniello né i principali avvocati della difesa, ovvero Valerio Spigarelli, Cataldo Intrieri, Giosuè Naso. Non sappiamo naturalmente cosa ci sarà nelle sei puntate del documentario sul mondo di mezzo. Ma sappiamo che l’occasione di un documentario, “senza tesi”, su Mafia Capitale rappresenta un passaggio importante per dimostrare che il servizio pubblico non solo non intende essere il semplice megafono di una procura ma intende essere il portatore sano di un’operazione verità: raccontare, accanto ovviamente alle ragioni per cui i Buzzi e i Carminati sono stati condannati a molti anni di carcere, anche il modo in cui il circo mediatico-giudiziario ha spacciato per mesi e mesi una storia che non esiste. Una fiction. Una fake news: quella della mafia a Roma. La Rai ha una grande occasione per raccontare, “con equilibrio e rigore”, un’inchiesta senza sposare le tesi di una procura e per spiegare come nasce una post verità. Sprecarla sarebbe un peccato, no?