Ricordate la casa di riposo "degli orrori"? L'orrore è solo nella giustizia
"Hanno fatto un processo sulla puzza". Tutti assolti. La Corte d’appello di Ancona ha ribaltato la sentenza di primo grado con cui sette persone erano state condannate per presunti maltrattamenti agli anziani ospiti della “Casa di Giobbe”
Roma. E niente, alla fine non c’era nessuna “casa degli orrori”, nessun “lager” degli anziani. Dopo il caso di Daniela Poggiali, l’“infermiera killer” dell’ospedale di Lugo condannata all’ergastolo con l’accusa di aver ucciso dei pazienti e poi assolta in appello dopo tre anni di carcere, abbiamo scherzato anche questa volta. La scorsa settimana la Corte d’appello di Ancona ha ribaltato la sentenza di primo grado con cui, il 28 settembre 2015, sette persone erano state condannate a svariati anni di reclusione nel processo sui presunti maltrattamenti agli anziani ospiti della “Casa di Giobbe”, un centro di accoglienza per anziani collocato sulle tranquille colline di Ascoli Piceno. Una piccola struttura a gestione familiare, balzata improvvisamente agli onori della cronaca nazionale nel gennaio 2010 in seguito a un blitz dei carabinieri svolto alle sei del mattino, dal quale sarebbe emerso uno scenario da incubo: anziani abbandonati a loro stessi in condizioni igienico-sanitarie precarie, alcuni immersi nei rifiuti e nella sporcizia, se non addirittura nei loro stessi escrementi, altri legati ai letti, altri ancora con segni di possibile violenza sul corpo.
Gli ingredienti per sconvolgere l’opinione pubblica con lo scandalo di una “casa degli orrori” con vittime dei poveri anziani c’erano tutti, e infatti giornali e televisioni non hanno esitato un attimo ad alimentare con furore la notizia. Come se non bastasse, quasi a voler rafforzare il quadro accusatorio (già divenuto certezza), i carabinieri e i Nas decidono di diffondere le fotografie scattate all’interno della struttura durante il controllo a sorpresa, subito rilanciate come “immagini choc” dai media. In realtà, a ben vedere, oltre a letti disordinati, sporcizia e resti di cibo, non c’è molto. Ma il messaggio va oltre il contenuto e i gestori della casa di cura vengono messi alla gogna su telegiornali e quotidiani nazionali, oltre che sui social network per mano di cittadini indignati.
Sull’onda dello sdegno popolare, il 28 settembre 2015 il tribunale di Ascoli condanna le sette persone coinvolte, tra cui il titolare della struttura Fernando Bernardi (57 anni) e sua moglie Luigina Orsini (53 anni), nel frattempo detenute una ventina di giorni in carcere e poi agli arresti domiciliari. Tutti e sette sono condannati per maltrattamenti, chi a 2 anni e 6 mesi (come Fernando, condannato anche per lesioni), chi a 2 anni e 10 mesi (come Luigina ed Elena, moglie e sorella di Fernando), chi a 1 anno e 4 mesi come due badanti polacche. Viene confermata, così, l’accusa della procura, secondo cui gli operatori della struttura “infliggevano perduranti sofferenze fisiche e morali” agli anziani ospitati, “facendo loro mancare, specie nelle ore notturne, assistenza, cura ed igiene necessarie, così causando sofferenze, privazioni ed umiliazioni del tutto incompatibili con le loro normali condizioni di degenza”.
Pochi giorni fa il ribaltamento nel giudizio di secondo grado: non c’era nulla. Tutti e sette gli imputati sono stati assolti dalla Corte d’appello di Ancona. Com’è potuto succedere? “Hanno fatto un processo sulla puzza”, racconta al Foglio Francesco Ciabattoni, uno degli avvocati difensori. “Quando i carabinieri sono arrivati alle 6 del mattino hanno trovato gli anziani con i pannoloni sporchi e cattivi odori, e hanno immaginato che ci fosse chissà quale situazione di trascuratezza e anche di violenza nei confronti delle persone ospitate. Ma come ha detto la dirigente dell’Asl locale che ha testimoniato al processo, se a quell’ora andate in un qualunque ospedale trovate la stessa situazione perché è normale che alcuni anziani se la facciano addosso durante la notte e a quell’ora devono ancora essere puliti”. Nella sua testimonianza, tra l’altro, la dirigente dell’Asl di Ascoli Piceno ha anche raccontato di essere stata diverse volte nella “Casa di Giobbe” per effettuare dei controlli proprio sull’assistenza agli anziani e di non aver mai rilevato nulla di preoccupante, trovando anzi gli anziani sempre molto sereni e ben assistiti. Sereno come Carlo Corbisiero, uno dei pazienti ospitati nella struttura, il più difficile da gestire in quanto affetto da epilessia e da un ritardo mentale che lo portava a manifestare un comportamento ripetitivo ossessivo: “Prima di essere ospitato nella Casa di Giobbe aveva cambiato quindici strutture. Era sempre stato espulso dopo poco tempo perché non era gestibile. I dipendenti delle varie strutture addirittura si mettevano in malattia pur di non assisterlo”, spiega Ciabattoni. Poi la pace ritrovata, nei limiti del possibile, proprio alla “Casa di Giobbe”. Durante il processo la responsabile del centro di salute mentale dell’Asur di Rieti ha raccontato di aver controllato le condizioni di Corbisiero quattro volte a sorpresa e di averlo sempre trovato “bene” e “molto contento”. “Era contentissimo di starci e noi più contenti di lui perché sapevamo che il ragazzo era gestito benissimo”, ha dichiarato inoltre la convivente del padre di Corbisiero davanti ai magistrati.
Nonostante le numerose testimonianze da parte di parenti, medici e dirigenti dei settori sanitari preposti ai controlli, gli imputati sono stati tutti condannati in primo grado, per poi essere magicamente assolti in appello. In secondo grado non c’è stata nessuna “super-perizia”, nessuna nuova testimonianza che potesse improvvisamente cambiare le carte in tavola a favore degli imputati. I giudici di appello hanno semplicemente esaminato gli atti e le testimonianze raccolte durante il dibattimento di primo grado. Elementi che, in altre parole, nella prima fase di giudizio erano stati liquidati come inattendibili, secondo una sorta di pregiudizio colpevolista. Tradotto: si può finire in carcere ed essere condannati sulla base di atti processuali che poi saranno valutati in maniera completamente opposta da un altro giudice. Le sorti del proprio destino nelle mani di libere interpretazioni di magistrati.
Nel frattempo, prima di accertare la verità giudiziaria, la gogna mediatica ha fatto il suo corso. La “Casa di Giobbe” ha chiuso i battenti, la famiglia che la gestiva è andata incontro a pesanti difficoltà economiche. “C’è chi, come il titolare della struttura, ha dovuto aprire un piccolo negozio di frutta e verdure vicino all’ospedale, c’è chi è stato costretto a iniziare servizi di pulizia – aggiunge Ciabattoni – Hanno tutti dovuto riadattare la propria vita, con tutta una serie di gravi conseguenze, soprattutto dal punto di vista personale, perché si tratta di reati molto infamanti. Tutti ti guardano con un atteggiamento diverso”.
E se la notizia dello “scandalo” aveva inizialmente trovato spazio persino fra i titoli dei telegiornali nazionali, l’assoluzione in appello per tutte le persone coinvolte è passata inosservata, nell’indifferenza generale. Pensare a una “riabilitazione” pubblica e sociale degli imputati è impossibile: “L’effetto mediatico della notizia a suo tempo è stato dirompente – osserva Ciabattoni – I telegiornali fecero servizi di apertura, mentre oggi sulla sentenza di assoluzione non hanno detto niente, la notizia è stata data solo da un giornale locale. E così oggi tutte le persone continuano ad associare la Casa di Giobbe alla ‘casa degli orrori’”.
Insomma, anche questa volta abbiamo trovato dei mostri con cui soddisfare la nostra sete colpevolista. Li abbiamo condannati, pubblicamente ancor prima che giudiziariamente, abbiamo devastato le loro vite per poi assolverli e abbandonarli nell’infamia sociale da noi stessi costruita, senza restituire loro un briciolo di giustizia (quella vera). Soddisfatti?