Il paese della mafia fai da te
Dopo la sentenza su Mafia Capitale, siamo davanti a un uso disinvolto e fin troppo esteso del termine, esposto al soggettivismo più incontrollato. Rimedi
L’art. 416 bis d el codice penale (che, com’è noto, definisce l’associazione di tipo mafioso) deve rimanere immutato o va riformato? Questo interrogativo – invero non inedito – torna a riproporsi dopo la recente sentenza del tribunale di Roma che, smentendo la procura, ha negato il carattere mafioso dell’associazione criminale di Buzzi e Carminati. Hanno avuto ragione o torto i giudici romani? Tra le voci contrarie alla decisione del tribunale, è stato il capo della polizia, il prefetto Franco Gabrielli, a prospettare esplicitamente la necessità che il futuro Parlamento rimodelli l’art. 416 bis, e ciò appunto allo scopo di eliminare ogni incertezza sulla possibilità di qualificare mafioso anche un gruppo criminale del tipo di quello di “Mondo di mezzo”. In una intervista al Messaggero del 25 luglio scorso, Gabrielli ha infatti sostenuto che la procura di Roma avrebbe correttamente proposto una lettura avanzata dei rapporti tra mafia e corruzione, essendo la corruzione l’incubatrice delle mafie; in considerazione dello stretto nesso tra mafia e corruzione, sarebbe opportuna una modifica legislativa dell’attuale reato di associazione mafiosa diretta a inserire il ricorso alla corruzione tra gli elementi caratterizzanti il metodo mafioso. In effetti, questa sollecitazione del capo della polizia, lungi dal rispecchiare una opinione isolata, poggia su di una analoga convinzione precedentemente manifestata sia dal procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, sia da altri magistrati esperti di criminalità organizzata.
Per verificare se sia davvero necessaria od opportuna la suggerita riforma legislativa occorrerebbe, preventivamente, procedere a una non superficiale rivisitazione del fenomeno mafioso nella realtà attuale, considerato sia in se stesso sia nei suoi possibili punti di contatto col fenomeno della corruzione. Non potendo essere questa la sede per una analisi approfondita, ci si limita a offrire al dibattito alcuni spunti di riflessione.
“Non mi va più bene che si continui a parlare di mafia in termini onnicomprensivi”, diceva Giovanni Falcone nel 1990
La prima considerazione da cui muovere è che non è affatto una novità la tendenza delle associazioni definibili mafiose ad avvalersi dell’arma della corruzione. Chi conosce il dibattito che a livello internazionale si è sviluppato sul concetto di criminalità organizzata di stampo mafioso, sa bene infatti che già da parecchi decenni sociologi e criminologi includono tra i connotati dell’agire mafioso – oltre all’uso della violenza – il ricorso alla corruzione anche del potere politico-amministrativo. E nella stessa realtà italiana non è certo soltanto da oggi che si assiste al fenomeno – via via estesosi dal meridione al nord – delle cosiddette cordate politico-affaristico-mafiose caratterizzate da una interazione tra metodo mafioso e logica corruttiva. Solo che, sul versante della riflessione scientifica, la specificità delle organizzazioni mafiose non è mai stata identificata nella possibilità di ricorrere a metodi corruttivi o nella mera capacità di esercitare pressioni ai fini del controllo di settori di attività economica. Così, ad esempio, un accreditato storico della mafia come Salvatore Lupo ha, dal canto suo, negato il carattere autenticamente mafioso di Mafia Capitale per queste due ragioni di fondo: la mancanza di continuità sotto il profilo del radicamento temporale e l’assenza di uno specifico sistema sub-culturale di riferimento.
Il problema dei legittimi limiti di estensione del concetto di mafia non era, peraltro, sfuggito allo stesso Giovanni Falcone, il quale in una intervista alla rivista Segno rilasciata nel 1990 aveva – significativamente – affermato: “Non mi va più bene che si continui a parlare di mafia in termini onnicomprensivi, perché si affastellano fenomeni che sono di criminalità organizzata ma che con la mafia hanno poco o nulla da spartire”. Nonostante queste avvertenze di Falcone, da allora a oggi è andato prendendo sempre più piede – nel linguaggio quotidiano come anche nella comunicazione mediatica – un uso disinvoltamente estensivo del termine “mafia”, per cui ci troviamo ormai in presenza di una sorta di concetto “fai da te” esposto al soggettivismo più incontrollato.
In sede giudiziaria – almeno in teoria – dovrebbero invece valere criteri definitori rigorosi, in omaggio al principio di legalità penale. Com’è noto, il concetto legale di mafia ha fatto il suo ingresso ufficiale nell’ordinamento italiano con la legge Rognoni-La Torre del 1982, che – introducendo nel codice penale l’art. 416 bis – ha imperniato la definizione normativa del metodo mafioso sull’avvalersi della forza di intimidazione del vincolo associativo e sulla condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva.
Il dibattito non inedito sull’articolo 416 bis del codice penale. Va riformato o deve restare così com’è?
A prescindere dai problemi interpretativi sollevati da tale definizione, è indubbio che il legislatore dell’82 ha, per un verso, individuato connotati dell’agire mafioso rispecchianti una matrice sociologico-ambientale che, come tale, è specificamente riferibile alle mafie classiche operanti nelle regioni meridionali (mafia siciliana, camorra campana, ’ndrangheta calabrese, ecc…). Ma, per altro verso, lo stesso articolo 416 bis sembra contraddirsi perché , al suo ultimo comma, esso precisa che è qualificabile di tipo mafioso qualsiasi associazione criminale che si avvalga comunque di forza intimidatrice per perseguire i suoi scopi, a prescindere dal luogo in cui operi e perfino se agisca all’estero.
Questo carattere per dir così ossimorico dell’art. 416 bis, il suo essere cioè ritagliato su tipologie specifiche di associazione mafiosa e al tempo stesso il suo pretendere di descrivere un modello generale di mafia, ha finito col dar luogo a problemi interpretativo-applicativi al momento di verificare in sede giudiziaria il carattere mafioso o meno di gruppi criminali costituiti per la prima volta al nord (ad esempio in Piemonte, Liguria e Lombardia), come articolazioni di preesistenti associazioni meridionali o come entità nuove aspiranti a una vita autonoma. In sintesi, la questione problematica postasi ricorrentemente si riferisce alla individuazione dei presupposti, in presenza dei quali possa sostenersi che un’associazione di nuova emersione abbia già maturato una capacità intimidatrice sufficiente a raggiungere la soglia della mafiosità. In proposito, si è assistito all’affiorare di soluzioni giurisprudenziali contrastanti, per cui sono sorti dubbi sull’idoneità dell’attuale articolo 416 bis a reprimere i sodalizi criminali di nuovo insediamento.
Mutatis mutandis, problemi sostanzialmente analoghi sono emersi nell’ambito del procedimento romano nel valutare se il gruppo criminale “Mondo di mezzo” fosse davvero in grado di sprigionare una forza intimidatrice di tipo mafioso. Pronunciandosi sulla legittimità di misure cautelari disposte sempre nell’ambito del medesimo procedimento, la stessa Cassazione ha invero avallato una interpretazione estensiva della forza di intimidazione: nel senso che ai fini della configurabilità del reato di associazione mafiosa, non sarebbe indispensabile che la capacità intimidatrice si diriga – secondo l’interpretazione tradizionale – contro la vita o l’incolumità delle persone assoggettate al potere mafioso, perché – argomenta la Corte – tale capacità potrebbe anche essere acquisita da “una struttura organizzativa che, con l’uso di prevaricazione e sistematica attività corruttiva, eserciti condizionamenti diffusi sull’assegnazione degli appalti e nel controllo dell’attività degli enti pubblici”. Ecco che, così argomentando, la Cassazione sembra avere sposato quell’interpretazione evolutiva del metodo mafioso propugnata da una parte della magistratura antimafia.
Si incappa sempre più in una petizione di principio, un circolo vizioso che dà per dimostrata la tesi che si dovrebbe dimostrare
Una tale interpretazione evolutiva sfocia in una ammissibile interpretazione estensiva dell’art. 416 bis, ovvero in una vera e propria applicazione “analogica”, in linea di principio vietata in diritto penale? In effetti, non è possibile dare una risposta netta e categorica in un senso o nell’altro a un simile interrogativo, e ciò proprio in considerazione del generico e vago tenore sociologico di termini quali “forza di intimidazione”, “assoggettamento” e “omertà”, i quali non consentono precise e univoche delimitazioni della loro portata semantica.
Comunque sia, sarà la lettura delle motivazioni a farci comprendere se il tribunale di Roma abbia escluso l’applicabilità dell’art. 416 bis perché contrario all’interpretazione estensiva della forza intimidatrice o, piuttosto, per ragioni di ordine probatorio. In attesa di questo chiarimento, vale la pena tornare a richiamare le motivazioni di fondo grazie alle quali alcuni commentatori – in piena consonanza con l’impostazione della procura di Roma – continuano a ritenere che “Mondo di mezzo” avrebbe meritato il marchio di associazione mafiosa. Si tratta di motivazioni legate alla tesi, accennata all’inizio di quest’articolo, secondo la quale i gruppi mafiosi ormai preferirebbero evitare di compiere atti violenti e privilegerebbero invece il ricorso a metodi corruttivi, i quali, pur non essendo sintomatici di sicura mafiosità, favorirebbero quella interazione tra criminalità mafiosa e sfera politico-economica che è alla base della forza delle mafie. A ben vedere, è assai dubbio che una tesi di questo tipo basti a concludere che la cosiddetta Mafia Capitale fosse davvero mafiosa nel senso di cui all’art. 416 bis. Ad argomentare come i sostenitori della tesi suddetta, infatti, mentre si svaluta aprioristicamente la forza di intimidazione quale potenziale di violenza contro le persone, si enfatizza il ricorso alla corruzione pur riconoscendosi però, nel contempo, che quest’ultima non è esaustivo o univoco criterio di mafiosità. Si finisce così con l’incappare, in definitiva, in una petizione di principio, in un circolo vizioso che dà per dimostrata la tesi che si dovrebbe dimostrare. Così stando le cose, non sembra dunque che allo stato siano stati addotti argomenti veramente convincenti a sostegno della proposta di riscrivere l’art. 416 bis nel senso suggerito – tra gli altri – dal capo della polizia Gabrielli.
Siamo sicuri che il riconoscimento dell’etichetta mafiosa avrebbe fatto risaltare la gravità della corruzione romana?
Siamo, poi, sicuri che il riconoscimento dell’etichetta mafiosa da parte del tribunale di Roma sarebbe davvero valso a far maggiormente risaltare la gravità della corruzione politico-ammnistrativa romana e la pericolosità del gruppo criminale di Buzzi e Carminati? Quanti lo pensano, verosimilmente, risentono di un pregiudizio culturale tipico del nostro tempo, e che è andato diffondendosi perfino tra alcuni magistrati: il pregiudizio cioè che la mafia rappresenti sempre e comunque il peggiore dei mali sociali e che, di conseguenza, per stigmatizzare anche simbolicamente l’eccezionale gravità di determinati eventi o fenomeni, non si possa fare a meno di bollarli come mafiosi. Fuori da questa sorta di onnivora ossessione mafiologica, le cose non stanno così. Purtroppo, nella realtà contemporanea non pochi sono i mali altrettanto gravi o, addirittura, più gravi della mafia.
A chiusura di questi spunti di riflessione, resta da accennare a una ulteriore possibile ipotesi esplicativa adombrata non senza malizia da qualche osservatore (e ripresa, ad esempio, in un convegno svoltosi di recente a Salerno), la quale tenderebbe a ricondurre l’enfasi posta sul connubio mafia-corruzione alla preoccupazione – incidente a livello anche soltanto subliminale – di rinnovare la legittimazione, e altresì di rinvigorire il ruolo delle strutture giudiziarie antimafia, allargandone l’ambito di competenza anche al contrasto della corruzione, quale fenomeno criminale – per dir così – all’ultima moda e, forse, oggi di maggiore allarme rispetto alle stesse mafie. Ora, per fugare del tutto ipotesi maliziose come questa, sarebbe necessario riuscire a dimostrare sulla base di dati empirici rigorosi, assai più di quanto non si sia fatto, quella correlazione necessaria e in presunto aumento tra mafia e corruzione che continua – a tutt’oggi – ad apparire più un assunto impressionistico, che una verità ormai inoppugnabile.