Chi consiglia di rileggere Sciascia sulla mafia si rilegga Sciascia sull'antimafia
Tommaso Cerno sull'Espresso e un apocrifo che non lo era
Appunti per un manuale di sopravvivenza alle insidie del dibattito pubblico: quando qualcuno vi invita a rileggere un autore, di solito è perché non lo ha letto o ne ha vaghe reminiscenze scolastiche. Dopo la sentenza del processo Mafia Capitale è arrivata la raccomandazione di rileggere Sciascia, rivolta sull’Espresso dal direttore Tommaso Cerno ai giudici del tribunale di Roma, rei di non aver capito che la palma va a nord e che la mafia non veste più la coppola – nozioni per le quali, a dirla tutta, si poteva tranquillamente prescindere da Sciascia. E anche un’altra cosa è arrivata, dopo il verdetto dei giudici romani: la sentenza informale di quello strano organo di giurisdizione parallela che è la Commissione antimafia, per bocca della presidente Rosy Bindi. Dice che a suo parere – proprio così, “a mio parere” – quella di Buzzi e Carminati è proprio mafia, e che purtroppo la magistratura giudicante non ne sa di mafia quanto la magistratura inquirente; dal che si deduce, per la proprietà transitiva, che ne sa anche meno di lei, che si occupa del fenomeno da ben quattro anni (a ottobre).
Ecco, forse bisognerebbe leggere Sciascia non solo sulla mafia ma anche sulla Commissione antimafia. “La Commissione, dico: chi sa come si regola, chi sa quello che domanda…”, si legge in “Filologia”, uno scherzo in forma di dialogo scritto all’inizio degli anni Sessanta – quando la prima Commissione stava per essere istituita – dove un mafioso colto istruisce un mafioso ignorante che dev’essere ascoltato e che ha a malapena i mezzi per rispondere ai carabinieri. “Ma la Commissione, a quanto capisco, può domandare quello che vuole”, come in un esame scolastico. La lezione del mafioso dotto riguarda l’etimologia della parola mafia, e le conseguenze che discendono dall’adottare l’una o l’altra definizione. Sciascia considerava profetico quel racconto, e vent’anni dopo, da deputato, lo ricordò in aula per dire che la Commissione antimafia gli pareva ancora incagliata tra filologia e sociologia. La filologia, a guardar bene, è tuttora una chiave imprescindibile; e forse questi anni saranno ricordati non tanto come quelli in cui la linea della palma è salita su su per l’Italia, quanto come gli anni in cui la mafia è finita al centro di una contesa di definizioni che sottintende una lotta di potere; perché, a chiamar mafia quello che mafia non è, guadagnano gli inquirenti in mani libere e strumenti coercitivi (il doppio binario va a nord) e guadagna la commissione in ragion d’essere e in legittimazione, potendo allargare le già vaste aree di competenza, che spaziano dalla composizione delle liste elettorali al parterre degli ospiti di Bruno Vespa.
Ora l’organo della giurisdizione parallela dovrebbe accogliere Nino Di Matteo, che ha chiesto di essere ascoltato. Non parlerà della trattativa, ma risponderà a Fiammetta Borsellino sulle indagini per via D’Amelio. Già che la commissione “può domandare ciò che vuole”, suggerisco che a margine dell’audizione qualcuno sollevi una questione, appunto, filologica. Da dove viene la frase attribuita a Sciascia, “lo Stato non può processare sé stesso”, di cui pm del processo trattativa e giornalisti fiancheggiatori hanno fatto quasi uno slogan, nonché uno scudo para-fallimenti? Ho sempre creduto che si trattasse di un apocrifo, ma la verità è perfino più interessante. Quella frase (devo la scoperta a Francesco Izzo, direttore della rivista “Todomodo”) Sciascia non l’ha mai detta, ma ha detto qualcosa di simile a Enzo Biagi in un’intervista del 10 giugno 1973: “In effetti, una classe dirigente non può giudicare sé stessa, e tanto meno condannarsi”. Sciascia però non stava parlando della magistratura giudicante. Stava parlando della commissione antimafia, e della sua dubbia utilità.