Cos'è la combinazione tra reputazione e amicizia
Le cose tristi hanno un risvolto. Nella morte di Renato Squillante il risvolto è doppio
Un amico che muore, così, verso i novantatrè anni, si accascia mentre guida la macchina, e tu che non lo vedi da anni, solo saluti e baci a Natale, vieni a saperlo dalla moglie dolce e severa, per telefono, mentre ti riposi di una vita di non-lavoro faticosa in Engadina, e sei affettuoso nella ricezione della notizia ma nulla più. Le cose tristi però hanno un risvolto, mentre quelle allegre si spiegano e si ridono da sole. Qui il risvolto è doppio, perché si parla di un giudice, Renato Squillante (1925-2017), e riguarda due cose: la reputazione e l’amicizia. La Cassazione definì esecrabile il fatto che il giudice a Roma avesse incassato dei soldi, tanti, nell’ambito di un processo ad alta tensione economica, ma non si configurava la corruzione, per le modalità giudiziarie del caso, e dunque nessuna condanna. La reputazione pubblica la perse, Renato, la mia amicizia no.
Secondo me bisogna comportarsi abbastanza bene ma sempre sentirsi peccatori. Anche se non si creda fortius, come diceva il monaco eretico di Wittenberg, bisogna fare come se Dio esista, Ratzinger su questo ha sempre insistito con grazia, e non pensarsi innocenti. La verticalità dell’uomo e della donna è tutta qui, non mi pare che ci sia bisogno di altro. Invece questo è un tempo in cui l’innocenza è portata in parata come un blasone di vanità. La buona reputazione pubblica non ti guadagnerà il Paradiso, ci vuol altro e non si sa che cosa. Quanta gente perbene rivedrò all’inferno, in questi anni ho perso il conto. Agisci astutamente, invece, perché la tua reputazione non sia senza macchia. Non c’è bisogno di “intrare nel male”, come diceva Machiavelli, basta non godersela confusi nel bene.
L’amicizia è presto definita. Basta una frase del mio caro Franco Zerlenga, napoletano e newyorkese: “Un amico ti dice che ha ucciso, tu gli rispondi: che cosa posso fare per te?”. Magari gli consigli di costituirsi e affrontare un processo, magari no. Renato fu incarcerato e fece lo sciopero della fame, Alessandro Galante Garrone, cupo moralista, fu spietato e giudicò riprovevole che un uomo con la toga adottasse questo mezzo di protesta, alla radio gli risposi che ragionava come Curcio, quando diceva al giudice: “Signor giudice, io sparo alla toga, se dentro c’è lei non ci posso fare niente”, e ne venne uno scandalo. È una strana casistica caritatevole, in tempi di casistiche misericordiose improbabili. Per Renato ho solo potuto rivendicare senza timori, anche in situazioni televisive, dunque estreme e grobianesche, grossolane, inveritiere, il fatto che gli volevo bene. Era un giudice meridionale, familista, con la divinizzazione delle creature, i figli, e della famiglia, e un taglio esistenziale di autoprotezione sociale. Lui e Liliana superbi padroni di casa. Da loro Berlusconi a cena si sentì dire da Cossiga di non entrare in politica, ché i lupi dei partiti se lo sarebbero mangiato in un boccone. Casa loro era zeppa di amici, anche quelli, molti, quasi tutti, che poi hanno avuto pudore e paura per la storia della reputazione. Tutto nella vita del giudice Squillante, sempre pronto a conoscere i desideri e le paure dei suoi conoscenti, sempre proteso al “che cosa posso fare per te?”, tutto era nel segno dell’innocenza, e per i comportamenti faranno testo la Cassazione e il Giudizio Finale.
Nel momento della disfatta fu trattato per ragioni politiche con spirito da aguzzini. Il repulisti non era per lui, che era amato da tutti, anche dagli avversari, ma per la solita storia di Berlusconi, che attirava amore e molto odio. Renato non capiva, lui che sapeva tutto di sé stesso, lui che si era messo in una trappola, lui che voleva promuovere con ogni mezzo il benessere della famiglia, lui che spaccava il capello in quattro ed era ferratissimo in fatto di diritto e di storto, lui che dava una mano a tutti quelli che gliela tendevano e dunque anche a sé. Per me che gli ero e gli sono amico, questo consigliere di Giacomo Mancini e di Francesco Cossiga, questo socialista e togato d’altri tempi, immerso nel bene e nel male della giustizia confinante con l’ideologia e la politica, era una debolezza sopraffatta dalla forza delle cose, ma non un uomo spregevole, l’opposto semmai. Non sono fatti componibili nella logica, ma sono fatti, e ora che si è accasciato credo sia decente ricordarli.