Di Matteo riapre la caccia a Berlusconi
Vigilia d’elezioni, si replica. L’antimafia chiodata comincia a far festa
Provate ad accostare l’orecchio per terra e a sintonizzarvi con le caverne di Palermo. Scoprirete che un delirio fescennino attraversa in queste ore le ultime falangi dell’antimafia chiodata. Le frange più estreme e belluine annusano già l’odore del sangue e sono tutte lì a far festa: credono che il giorno della Grande Vendetta sia ormai vicino e non vedono l’ora di accendere i roghi, di rimontare i patiboli, di ridare fiato alle trombe della gogna e dello sputtanamento.
La festa malsana è cominciata la settimana scorsa quando il pubblico ministero Nino Di Matteo è stato amorevolmente ascoltato dalla commissione parlamentare Antimafia, quella presieduta dall’onorevole Rosy Bindi. In quella sede, così autorevole e anche così roboante, il pm palermitano ha annunciato che per disvelare le trame occulte dell’ultimo mezzo secolo di storia repubblicana, il mastodontico processo sulla Trattativa non basta più. Bisogna andare oltre quel patto maledetto tra i boss di Cosa nostra e alcuni pezzi delle istituzioni. E per andare oltre bisognerà partire dalle confidenze che il boss mafioso Giuseppe Graviano, detenuto nel carcere duro di Ascoli Piceno, ha fatto durante la consueta ora d’aria al camorrista Umberto Adinolfi, suo compagno di socialità.
Confidenze clamorose, ovviamente, che gli agenti di polizia hanno puntualmente registrato e consegnato nelle mani dell’indomabile Di Matteo. “Berlusca mi ha chiesto questa cortesia, per questo è stata l’urgenza”, diceva Graviano al suo compagno di sventura, passeggiando nel cortile del carcere. E aggiungeva: “Lui voleva scendere in politica però in quel periodo c’erano i vecchi e lui mi ha detto: ci vorrebbe una bella cosa”.
La due frasi significano tutto e niente. Volendo, potrebbero anche essere relegate nel vasto immondezzaio delle nefandezze gratuite, delle rivelazioni prive di qualsiasi riscontro. Ma per Di Matteo – il pm più scortato d’Italia – le parole di Graviano non possono cadere nel vuoto. Bisogna riavvolgere il nastro e tornare all’ipotesi più scellerata e all’un tempo più suggestiva: sarebbe stato Silvio Berlusconi a invocare le stragi con le quali la mafia, a partire dal maggio del 1992, ha sparso morte e terrore a Palermo, a Roma, a Firenze fino a Milano. Sarebbe stato lui uno degli inafferrabili “mandanti esterni”. Lo avrebbe fatto per scendere in campo e vincere facile dentro un deserto di sangue e di paure. Sarebbe stato lui a chiedere alle belve mafiose di scatenare la fine del mondo. Sì, proprio lui, il Cavaliere di Arcore, il Caimano più odiato dalle anime belle della sinistra, il leader politico che dopo vent’anni di permanenza sulla scena del potere sembrava già morto e sepolto e invece è improvvisamente risorto, al punto che medita di riprendersi tutto quello che ha lasciato nel 2011, quando fu costretto a mollare Palazzo Chigi e a cedere le leve del governo a Mario Monti. Ce la farà? Il voto è previsto per la prossima primavera e il pronostico, pur segnalando un ottimo piazzamento, lascia comunque ampio spazio alla mutevole bizzarria della politica. Ma una certezza c’è già. Ed è che la caccia grossa all’uomo politico più perseguitato d’Italia è già ricominciata. Ciak, si rigira. Di Matteo e gli altri tre magistrati che, nell’aula bunker dell’Ucciardone, rappresentano la pubblica accusa nel processo Trattativa, hanno già trasmesso le registrazioni, con le parole di Graviano, alle procure di Firenze e Caltanissetta. L’obbligatorietà dell’azione penale – quel grande vessillo costituzionale che tutto copre e tutto assorbe – costringerà i capi dei due uffici giudiziari a riaprire le indagini che vent’anni fa erano già state abbondantemente fatte ma senza risultati concreti: Firenze, competente per la strage di via dei Georgofili, aveva archiviato la sua inchiesta nel 1998; mentre la procura di Caltanissetta, che si era spinta a ipotizzare – su input dello stesso Di Matteo, allora applicato a quell’ufficio – un ruolo di Berlusconi e di Marcello Dell’Utri nel massacro del giudice Paolo Borsellino, aveva rinunciato a ogni velleità investigativa già nel 2002, con una richiesta di archiviazione sottoscritta dal procuratore Giovanni Tinebra e dai sostituti Francesco Paolo Giordano e Salvatore Leopardi. Non solo. Dopo la resa di Caltanissetta il gioco era stato preso in mano dalla Direzione nazionale antimafia, allora diretta da Pietro Grasso, oggi presidente del Senato, con una indagine a dir poco monumentale affidata al sostituto Gianfranco Donadio. Il quale, manco a dirlo, a forza di indagare a destra e a manca e di seguire tutte le piste possibili, ha scavalcato ogni confine, anche quello della decenza, ed è finito sotto inchiesta del Consiglio superiore della magistratura. I numeri sono enormi. Pur di incastrare i fantomatici registi occulti delle stragi, l’irriducibile Donadio ha inviato 600 richieste alla polizia giudiziaria e si è avventurato in 119 colloqui investigativi dentro e fuori le carceri con pentiti, collaboratori di giustizia e malacarne di ogni risma. Ma non ha portato a Grasso il benché minimo risultato. Gli ha consegnato solo un guazzabuglio di carte inutili e di sovrapposizioni dannose per le indagini che nel frattempo erano state disposte da quelle stesse procure distrettuali che Donadio aveva accuratamente trascurato di informare. Da qui il procedimento disciplinare avviato dal Csm.
Miseramente crollati i castelli di sabbia costruiti da Donadio, la caccia grossa ai mandanti occulti e in particolare a Berlusconi poteva anche ritenersi chiusa. Invece no. Le parole di Graviano, pronunciate con la tecnica mafiosissima del dire e del non dire, consentiranno a Di Matteo di riaprire la partita giudiziaria attorno al Cav. Il boss quasi certamente sarà convocato come testimone nel traballante processo sulla Trattativa, le cui udienze, sospese per le ferie, sono riprese ieri; la deposizione avrà inevitabilmente una chiassosa risonanza mediatica e il frastuono creato da giornali e talk-show finirà quasi certamente per avere un pesante riflesso sull’imminente campagna elettorale.
Il tentativo dei pm dentro l’aula bunker sarà, ufficialmente, quello di trovare le prove di una complicità che in vent’anni di indagini, di processi, di insinuazioni e di ammiccamenti non sono state trovate. Ma se l’effetto mediatico si può già dare per scontato, sarà molto più difficile prevedere il risultato che la testimonianza di Graviano potrà avere sul piano strettamente giudiziario. La Corte, dal presidente Alfredo Montalto fino ai giudici popolari, vuole prove e riscontri; la santabarbara della retorica e delle mezze frasi non scuote più nessuna coscienza.
Le parole di Graviano – ammesso che il boss di Brancaccio le abbia pronunciate senza sapere di essere intercettato – sono estremamente vaghe: che l’invito a “una bella cosa” sia una istigazione alle stragi è tutto da dimostrare. Ma all’interno di quelle chiacchiere Di Matteo ha colto – almeno così ha detto alla Bindi – un’assonanza con le dichiarazioni rilasciate una ventina di anni fa dal pentito Salvatore Cancemi, quel mafioso di mezza tacca che, durante la sua lunga carriera di collaboratore di giustizia, non solo ha mostrato una straordinaria abilità nelle dichiarazioni a rate ma ha avuto pure la tracotanza di paragonare se stesso a “una vite arrugginita, per svitare la quale ci vuole tempo, molto tempo”. Infatti impiegò tre anni, dal ’93 al ’96, prima di ammettere le sue colpe. Poi, quando capì che i pm di Caltanissetta avevano fretta di stringere il cerchio attorno a Berlusconi, impapocchiò di avere sentito dire, nel suo perenne vagare tra una cosca e l’altra, che Totò Riina, il capo dei sanguinari corleonesi, andava spavaldamente affermando che Berlusconi e Marcello Dell’Utri “erano soggetti da appoggiare ora e in futuro”.
Chiacchiere, soltanto chiacchiere
Ma era semplicemente un’altra chiacchiera, un’altra scempiaggine lanciata tra i piedi dei magistrati da un pentito “anguilloso” che, come tutti i boss murati nelle patrie galere, tentava solo di cavarsela senza pagare eccessivamente dazio. Lo scrive a pagina 71 della sua archiviazione il gip di Caltanissetta, Giovanbattista Tona, dopo avere letto e valutato 21 faldoni di carte trasmessi al suo ufficio dalla procura: “Le progressive e anguillose propalazioni di Cancemi sono viziate dalla sua costante propensione a ridimensionare il proprio ruolo nei reati contestatigli”. Un pataccaro e nulla più verrebbe da dire, se non ci fosse il timore di ingelosire il principe dei pataccari, cioè quel Massimo Ciancimino che non a caso è stato trasformato in una “icona dell’antimafia” e che, nonostante i suoi processi per calunnia e i suoi giochi proibiti con il tritolo, resta tuttora il testimone chiave della fantomatica Trattativa.
A questo punto si pone però una domanda. Se questo è il labirinto di frastuono e ambiguità dentro il quale si muovono i personaggi e gli interpreti del drammone giudiziario, riuscirà Di Matteo a infilzare in un’aula di tribunale l’imputato Silvio Berlusconi?
L’obiettivo del magistrato antimafia più famoso d’Italia – ha ricevuto oltre cento cittadinanze onorarie e tra queste, anche quella di Roma consegnatagli dalle mani della grillina Virginia Raggi – non è certo quello di trascinare in galera il capo di Forza Italia: non c’è un fatto personale, non ci sono scommesse da vincere o da perdere. C’è semmai la voglia, tenace e testarda, di scoprire la verità, tutte le verità.
Ma la missione, per quanto nobile, nasconde un dettaglio non secondario. Di Matteo – ha scritto ieri nel suo editoriale Giorgio Mulè, direttore di Panorama – non è una toga qualunque confusa nel mare grande di altre ottomila toghe, “ma un magistrato ‘adottato’ a sua risaputa dai 5 stelle e addirittura indicato come prossimo ministro dell’Interno” da Beppe Grillo, padre padrone del Movimento. Una sottolineatura alla quale Mulè lega inesorabilmente un dubbio: può un magistrato così esposto andare in Parlamento e chiedere pubblicamente, come fosse un tribuno qualsiasi, di riaprire “immediatamente” una inchiesta, indicando in Berlusconi, casualmente nemico politico dei Cinque stelle, il principale soggetto su cui indagare?
Il dubbio di Mulè resterà probabilmente senza risposta: l’immagine che una larga opinione pubblica si è fatta di Nino Di Matteo è quella dell’eroe in lotta contro la corona unita del male. Una corona larga dentro la quale i supporter del pubblico ministero più minacciato d’Italia – riuniti nella Confraternita delle Stimmate, che è un sito specializzato nel mascariamento e nel linciaggio di chi non è d’accordo con le tesi della Trattativa – hanno inserito non solo i boss e i picciotti della mafia siciliana ma anche i cosiddetti “poteri occulti”. Finora il nome più altisonante dato in pasto, con furia talebana, agli insulti e agli sputacchiamenti del web è stato quello dell’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, colpevole di avere chiesto alla Corte costituzionale – e non a una cupola mafiosa, si badi bene – di impedire che i pm della Trattativa rendessero pubbliche le registrazioni di quattro sue conversazioni private con Nicola Mancino, imputato di falsa testimonianza. Ma da oggi tra i bersagli immobili della buffonesca Confraternita ci sarà anche Silvio Berlusconi e, con lui, chiunque si azzarderà a criticare il potere di Nino Di Matteo: magistrato coraggioso, ma con un posto assicurato di ministro nel futuro governo dei grillini. Viva l’Italia.