Il caso Albamonte e altre contraddizioni
Il paradosso che sia toccata a lui l’amaro primato di vivere per la prima volta come presidente dell’Anm la sua condizione di indagato
Al direttore - E’ certamente un paradosso che sia toccata ad Eugenio Albamonte l’amaro primato di vivere per la prima volta come presidente dell’Anm la sua condizione di indagato.
Albamonte, come è noto, è stato denunciato da un imputato contro cui sostiene la pubblica accusa in dibattimento. Sono stati i due legali di questi a dargli notizia in udienza di essere indagato per il resto di accesso abusivo a sistema informatico, invitandolo ad astenersi. Secondo il Messaggero il nocciolo delle accuse coinciderebbe con le questioni di diritto mosse dai difensori in sede di riesame e dibattimentale, sempre respinte. Ci sono alcune riflessioni. Albamonte, che come pm è stato sempre determinato e duro avversario di ogni avvocato, ha seguito da presidente dell’Anm una politica di apertura e ricerca di dialogo con l’avvocatura, e di forte presa di distanza dalle tematiche populiste e corporative rispetto alla precedente presidenza. Di recente non ha esitato a muovere critiche alla sua stessa corrente di provenienza, Magistratura democratica. Posizioni sicuramente impopolari presso settori conservatori della magistratura.
E’ sicuramente insolito che un alto magistrato non venga informato di un fatto giudiziario rilevante per lui e il suo lavoro, che, invece, è liberamente comunicato dagli uffici giudiziari ad altri e non sottoposto a segreto. Viene facile pensare a un ulteriore esempio di una deriva culturale, in passato colpevolmente alimentata dalla stessa magistratura, di una strumentale diffusione di sospetti in funzione di aggiungere credibilità a tesi accusatorie ancora da provare e spesso rimaste senza prova.
Questo in via generale. Come avvocato mi stupisco anche di altro. Fermo restando l’autonomia e la libertà di ogni difensore, trovo bizzarro che basti a un avvocato l’esistenza di una notizia di reato per pretendere l’estromissione dal terreno di gioco di un avversario, come se ignorasse la presunzione di non colpevolezza. In un giusto processo, oltre le norme formali, esiste un codice di fair play tra le parti. Qualcosa che l’indimenticato Ettore Randazzo chiamava “deontologia condivisa”, e tramite la quale pensava si potesse contribuire a sollevare l’avvocatura da una eterna condizione di inferiorità e subordinazione verso la magistratura. Ce lo diciamo sempre che è sbagliato confondere il peccato con il reato, lo è altrettanto mescolare una nullità processuale con un illecito penale. E lo sarebbe ancora di più in funzione di iniziative pretestuose. Se mai fosse questo il caso, a mio parere sarebbe un atteggiamento sbagliato e da censurare. Ribadisco: a mio parere e se fosse questo il caso.
Sì lo so, qualcuno dirà che non si può pensare di vincere con una pistola scarica, ma “qualche volta succede” (cit. “Il buio oltre la siepe”) e alla fine sono quelle volte le uniche che contano.