La storia di Enzo Mannina, vittima dell'Antimafia e dell'erario
L'imprenditore trapanese, condannato per mafia, è stato assolto dopo quattro anni e sette mesi in carcere. Ora però lo Stato vuole 3 milioni di euro di debiti maturati dalla sua azienda durante l’amministrazione giudiziaria
Ha trascorso quattro anni e sette mesi in carcere con l’accusa di essere un mafioso, subendo il sequestro e poi la confisca della propria azienda. Alla fine di questo calvario è stato assolto e ora l’erario (lo “Stato”) gli chiede di restituire 3 milioni di euro di debiti maturati dall’azienda durante l’amministrazione giudiziaria, col rischio concreto di fallire definitivamente. È l’incredibile storia che ha travolto l’imprenditore trapanese Enzo Mannina, finito nel tritacarne mediatico-giudiziario dell’antimafia siciliana, quella che dietro il totem della lotta alle cosche non esita a lasciare a terra, esanimi, piccoli, medi e grandi imprenditori che con coraggio provano a creare lavoro in una delle regioni con la più alta disoccupazione in Europa.
Il calvario di Mannina inizia nell’aprile del 2007, quando viene arrestato su richiesta della Direzione distrettuale Antimafia di Palermo (in particolare dei sostituti Gaetano Paci e Andrea Tarondo) con un’accusa pesantissima: quella di far parte del clan guidato dal capomafia trapanese Francesco Pace. Con lui finiscono in manette altre quattro persone, tra cui l’ex deputato Bartolo Pellegrino, ritenuto l’uomo cerniera tra mafia e politica, accusato – come scrivono i magistrati della Dda di Palermo – di fare “mercimonio della sua carica politica”.
Secondo gli inquirenti, Mannina avrebbe provato a impossessarsi per conto di Cosa Nostra della Calcestruzzi Ericina grazie all’intermediazione di un dirigente dell’Agenzia delle entrate, che per favorire l’acquisizione della Calcestruzzi da parte del clan di Pace avrebbe dovuto redigere una valutazione ad hoc, che ne sottostimasse il valore. Nel mezzo le solite dichiarazioni di pentiti, come Antonino Birrittella.
L’inchiesta confluirà nel filone di indagini, condotte sempre dalla squadra Mobile di Trapani e dalla Dda di Palermo, sulle grandi opere realizzate a Trapani in occasione della Louis Vuitton Cup del 2005 e che giungerà poi a coinvolgere anche il senatore Antonio D’Alì, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Secondo i pm D’Alì avrebbe giocato un ruolo anche nella vicenda della Calcestruzzi Ericina, intervenendo quando era sottosegretario agli Interni per trasferire il prefetto Fulvio Sodano che si opponeva a una “svendita” dell’azienda.
Il quadro tracciato dagli inquirenti è crollato completamente in sede di giudizio in un percorso processuale schizofrenico, a tratti farsesco, durato ben dieci anni. Nel 2008 Mannina viene condannato con rito abbreviato dal gup di Palermo a 6 anni e 8 mesi di reclusione. Nel 2010 i giudici della Corte d’appello di Palermo confermano la sentenza, riducendola a 6 anni e 3 mesi. Un anno dopo il colpo di scena: la Cassazione, su richiesta dello stesso procuratore generale, annulla con rinvio la condanna, che però viene confermata successivamente da una nuova Corte d’appello (che riduce di nuovo la pena a 6 anni). Nel 2015 il nuovo stop della Cassazione che, ancora su richiesta del procuratore generale, annulla la condanna con rinvio chiedendo di declassare il capo di imputazione da associazione di stampo mafioso a concorso esterno. Lo scorso dicembre una nuova Corte d’appello di Palermo ha assolto “perché il fatto non sussiste” Mannina, che però nel frattempo ha trascorso quattro anni e sette mesi in carcere in regime di custodia cautelare.
Un flop colossale per gli inquirenti. Già nel 2012 l’ex deputato Pellegrino era stato scagionato, con l’assoluzione definitiva in Cassazione dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. D’Alì, già assolto in primo grado nel 2013 dalla stessa accusa, ha visto la propria assoluzione confermata dalla Corte d’appello di Palermo nel settembre 2016 (lo scorso maggio, entrando a gamba tesa in piena campagna elettorale, la Dda di Palermo ha chiesto per lui l’obbligo di dimora, come a voler ripiegare per vie traverse la sconfessione delle proprie tesi in sede penale, ma questa è un’altra storia).
Nel giugno scorso la Corte d’appello di Palermo ha decretato la revoca della misura di sorveglianza, della confisca e del sequestro di tutte le quote sociali dell’azienda di Mannina (la Mannina Vito S.p.a.), in quanto “le uniche ragioni che hanno portato all’adozione della confisca si sono rivelate non suffragate da elementi indiziari datati di obiettiva consistenza”. Ora però, oltre al danno di aver trascorso più di quattro anni in carcere ed essersi visto sottrarre per tutto questo tempo la propria azienda, la beffa: Riscossione Sicilia, la società che si occupa della riscossione dei tributi nell’Isola, ha notificato a Mannina una comunicazione preventiva di ipoteca per un debito di oltre 3 milioni di euro, accumulato con l’erario durante l’amministrazione giudiziaria della sua azienda. Circa 1 milione e 400 mila euro di debito riguarda il finanziamento di un progetto poi revocato alla società a seguito dell’informativa antimafia. L’indebitamento pone definitivamente a rischio la stabilità della società e dei suoi circa 35 dipendenti, con il gruppo ora costretto pure a proporre una dilazione del pagamento. Insomma, secondo i giudici i pm hanno sbagliato a perseguire per dieci anni l’imprenditore e ora lo Stato chiede i danni, ma non ai magistrati, bensì all’imprenditore stesso.
La notizia della beffa ai danni di Mannina è giunta proprio mentre l’Aula della Camera approvava la riforma del codice antimafia, che prevede la controversa estensione delle misure di prevenzione (personale e patrimoniali, come appunto il sequestro) anche ai semplici indiziati – neanche condannati in primo grado – di reati contro la Pubblica amministrazione. Le imprese sequestrate alle mafie nei registri delle Camere di Commercio sono 17.838, con un totale di quasi 250 mila addetti e un valore di 21,7 miliardi di euro (praticamente una finanziaria). Spunti per una riflessione, con un pensiero a Mannina.