Legnate di Legnini su Davigo
In un paese normale i magistrati non fanno politica a mezzo stampa. Ma in Italia vige il codice mediatico-giudiziario
In un paese in cui si rispettano i princìpi della separazione dei poteri i magistrati non fanno politica. O almeno, se pure lo fanno, e non si può negare che sia capitato, non lo proclamano apertamente. Ma se invece qualche magistrato lo fa, venendo meno alla deontologia della sua professione, gli organi di stampa, almeno quelli seri, lo criticano. In Italia da un quarto di secolo abbondante capita invece l’esatto contrario: si è creato un circuito (circo) mediatico-giudiziario che detta i tempi e spesso i modi della politica, che interferisce nella creazione dello spirito pubblico ed esercita una specie di dittatura informale. Piercamillo Davigo ha il diritto, come cittadino, di pensare quel che gli pare.
Se però le sue tesi giustizialiste e il suo particolarissimo modo di intendere la giustizia travalicano i limiti del suo libero convincimento diventando la base di un’offensiva politica (come dovrebbero essere le leggi, come dovrebbero essere trattati i politici) e vengono riportati dagli organi di informazione, questo accade perché è un magistrato, e non un privato cittadino. Soltanto che, in quanto magistrato, dovrebbe tenere un comportamento del tutto difforme, e la stampa avrebbe il dovere di ricordarglielo. Se Davigo ha intenzione di partecipare alla lotta politica, appenda la toga al chiodo e si candidi. Ma a quel che pare la campagna elettorale che sta conducendo è per ottenere la carica massima della magistratura, quella di presidente della Cassazione.
Non sarà vero, speriamo, ma già il fatto che si possa pensare che per concorrere a una carica così delicata sia utile una sovraesposizione mediatica dovrebbe far riflettere. Si dice che a queste intemperanze dovrebbe reagire l’organo di governo (diventato, contro la Costituzione, di autogoverno) della magistratura, cioè il Csm. Ma quando, come nel caso Consip, ci sono evidenti fughe di notizie, taroccamento di intercettazioni a fini evidentemente politici, il Csm si arrende di fronte allo strapotere del circuito mediatico-giudiziario. A ben rifletterci, è questa accettata prevalenza del circuito mediatico-giudiziario la vera anomalia italiana.
Nessuno chiede processi sommari, nemmeno nei confronti dei magistrati; ma anche i proscioglimenti lampo, tanto rari per i comuni cittadini, sembrano un’esclusiva di una sola categoria, anzi due: i membri di una procura e i giornalisti che li spalleggiano. Vedi, ma giusto per fare un esempio, l’archiviazione di Henry John Woodcock nell’indagine per la propalazione delle notizie coperte da segreto nell’affaire Consip. Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, cui compete la funzione di promuovere inchieste sulle anomalie giudiziarie, si limita a prendere atto, tutte le volte e anche questa volta.
Se Davigo fa politica, si limita a osservare che le tesi del magistrato non coincidono con quelle del governo, per poi concludere che in fondo tutto questo è “fisiologico”. È un po’ come dire che una patologia del sistema istituzionale che ha influito pesantemente sulla vicenda politica nazionale è diventata fisiologica. Capovolgendo l’assunto: vuol dire che è invece “patologico” continuare a battersi per una magistratura che faccia il suo mestiere e non si impegni nell’usurpazione giustizialista di quello degli altri organi dello stato. Diversamente, ieri parlando ai penalisti il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini è stato esplicito: “In nessun paese europeo è consentito passare con tanta facilità dai talk-show alle prime pagine dei giornali di funzioni requirenti o giudicanti”. Accettare questo stato di cose è la vera anomalia del sistema italiano. Però, ha aggiunto Legnini, “non ci sono norme per arginare questo fenomeno”. Appunto. Fate presto.
L'editoriale del direttore