Cosa ci dice di Di Maio la sua idea, senza senso, di abolire la prescrizione
Davvero pensate ancora che competenze e cultura non siano fondamentali per candidarsi a capo di un governo?
Noi abbiamo sempre chiesto l’abolizione della prescrizione, perché la prescrizione oggi sta bloccando la giustizia”: così ha affermato Luigi di Di Maio, candidato premier grillino, nel corso di una trasmissione di La7 andata in onda la settimana scorsa. Ma, come ha notato Claudio Cerasa su queste colonne (cfr. il Foglio del 14 ottobre), di fronte a una dichiarazione tanto stupefacente nessuno dei giornalisti presenti ha battuto ciglio. Come mai?
Il teatro mediatico dei nostri giorni non di rado somiglia, purtroppo, a uno scemenzaio nel quale si dicono così tante sciocchezze, che ormai per forza di abitudine quasi non ci si scandalizza più. Solo che da un giovane politico che ambirebbe a fare il capo di un futuro governo, ci si attenderebbe maggiore autocontrollo e pudore intellettuale prima di pronunciarsi su questioni molto dibattute e tecnicamente complesse. E quanto la prescrizione sia tema ostico lo dimostra la sua riforma varata di recente, frutto di un compromesso difficoltoso tra orientamenti contrastanti, che ha finito per scontentare un po’ tutti.
Ora, non è facile capire se l’abolizione di questo istituto rientri davvero nel programma di governo del Movimento 5 stelle, o si tratti di una proposta escogitata al solo fine di lucrare consenso elettorale dai settori più giustizialisti dell’opinione pubblica. Nel dubbio, non è forse inutile chiarire ai non addetti ai lavori che la prescrizione è un istituto giuridico di origini antiche, che però continua a trovare cittadinanza (sia pure secondo modalità di disciplina differenti) nei sistemi penali evoluti proprio per la sua rispondenza a criteri di razionalità e a principi di civiltà giuridica. Ciò emerge dalle ragioni tradizionalmente addotte a suo fondamento, che proviamo a sintetizzare qui di seguito.
i) Il decorso del tempo comporta che l’offesa delittuosa venga per lo più dimenticata (con l’eccezione di alcuni delitti particolarmente gravi, che la legge considera “imprescrittibili” appunto perché tende a perdurarne il ricordo sia nelle vittime, sia nella collettività di riferimento). Ed è anche possibile che l’autore del fatto criminoso cambi nel frattempo personalità, trasformandosi per ravvedimento spontaneo in una persona perbene: la pena perde dunque fondamento e scopo, in termini sia di prevenzione generale (il reo non è più un cattivo esempio per gli altri cittadini), sia di prevenzione speciale (l’autore si è riabilitato da sé, per cui una pena rieducatrice sarebbe ormai inutile). Sicché è il concreto interesse a punire a venir meno, almeno per uno Stato laico che assegni alla pena scopi socialmente utili, e non persegua con essa l’obiettivo – non più compatibile col tempo presente – di retribuire a ogni costo una colpevolezza considerata per ragioni religiose o morali incancellabile.
ii) Al venir meno della necessità di punire si aggiunge un’esigenza garantista, in chiave di salvaguardia del diritto di ciascuna persona a pianificare libere scelte di vita: tenere un individuo sotto la spada di Damocle della giustizia per un tempo indefinito inciderebbe negativamente, infatti, sulla sua libertà di azione. Questa esigenza di garanzia riceve un indiretto supporto, nel nostro ordinamento, in base ai principi del “giusto processo”, tra i quali rientra esplicitamente – com’è noto – quello della sua ragionevole durata.
iii) Un ulteriore filone di pensiero fa leva, in particolare, su considerazioni di ordine processuale-probatorio: nel senso che quanto più un reato è lontano nel tempo, tanto più difficile risulterebbe provarlo. Le prove sbiadirebbero man mano che ci si allontana dal momento del delitto commesso: i testimoni, sempre che siano in vita, non sarebbero più in grado di ricordare; e non sarebbe neppure agevole disporre di elementi documentali ben conservati.
E’ anche vero che qualcuna di queste ragioni giustificatrici può esporsi a rilievi critici. Ad esempio, non è affatto sicuro che a distanza di tempo dal delitto il suo autore muti personalità: un delinquente incallito non si trasformerà facilmente in un cittadino rispettoso delle leggi. Quanto poi ai problemi di prova, l’evoluzione tecnologica mette oggi a disposizione strumenti sofisticati che consentono di ricostruire fatti anche abbastanza risalenti temporalmente, e le prove cosiddette scientifiche (come ad esempio l’analisi del Dna) non hanno una data di scadenza. Così stando le cose, qualche studioso suggerisce di ripensare in radice i fondamenti della prescrizione così come ereditati dalla tradizione, e ciò appunto per verificarne la persistente validità alla luce delle innovazioni intervenute nella società in cui viviamo. Ma nessuno, tra gli studiosi più esperti dell’argomento, si spinge sino a ritenere che la realtà attuale imponga di rendere imprescrittibile la totalità dei reati in nome di una efficienza repressiva assunta a priorità assoluta: un’idea simile rifletterebbe una onnivora ossessione punitiva, consonante con un populismo penale estremistico ma decisamente incompatibile con i principi di un sistema penale civile.
Si ripropone inevitabilmente, a questo punto, l’interrogativo sul bagaglio di competenze e di cultura posseduto dagli esponenti di una nuova forza politica che, come il Movimento 5 Stelle, aspirerebbe addirittura ad assumere responsabilità di governo. Ma il problema in verità trascende il fronte grillino. Come ha ben osservato Raffaele Simone (cfr. L’Espresso del 24 settembre scorso), ignoranza e incompetenza sono più in generale diffusi in tutto il ceto politico attuale, i cui esponenti sono non a caso figli di un’istruzione scolastica ormai deteriorata e di una fase storica nella quale lo studio e la cultura hanno finito col perdere molto del loro valore. Come affidare, però, a persone impreparate l’attività legislativa e il funzionamento della democrazia?
Non sembri, allora, una provocazione un auspicio come questo: che i nuovi eletti – a partire dal prossimo Parlamento – vengano obbligatoriamente sottoposti a corsi di formazione in materie quali la storia moderna e contemporanea, il diritto costituzionale e (almeno a livello di nozioni basilari) altre discipline giuridiche ed economiche che assumono rilievo in sede legislativa o di governo. E’ pretendere troppo?