Così la parola garantismo ha perso senso e oggi significa il suo opposto
Dal no agli abusi dei pm alla sottomissione ai giudici
Da quel maestro ineguagliabile che era Gaetano Salvemini, scrisse Ernesto Rossi, un giovane poteva imparare “a battere con le nocche sull’intonaco delle parole per sentire quel che c’è dietro: il gesso, la pietra viva o il vuoto”. Giovani o meno giovani, tocca rimettersi tutti alla scuola di Salvemini, e di corsa; perché il crollo di un sistema si annuncia di solito con il disfacimento del linguaggio che lo sorregge dalle fondamenta. Ci sono movimenti tellurici che provocano slittamenti semantici impercettibili ma profondi, e se non te ne accorgi per tempo avrai la brutta sorpresa di bussare un giorno sull’intonaco di una parola e vedere venir giù l’intera parete.
Se c’è una parola giunta ormai a uno stadio avanzato di sgretolamento, questa è senz’altro “garantismo”. Parola non bella (come gran parte degli -ismi di fattura recente, del resto) che lo stesso Leonardo Sciascia confessava di amare poco. E tuttavia l’estetica dell’intonaco era l’ultima delle preoccupazioni, finché sotto potevamo sentire una muratura massiccia: la difesa dell’individuo dagli arbitrii giudiziari e dagli abusi polizieschi, l’argine da imporre alla potestà punitiva dello stato. Qualcosa però sta cambiando, basta battere con le nocche nei punti giusti. Una sciagurata opinione corrente vuole che la parola garantismo abbia recuperato infine la sua dignità, sciolta dalle grinfie del berlusconismo, e che sia diventata di nuovo pronunciabile. Tutti o quasi tutti si proclamano garantisti, alleluia, e anzi non perdono occasione per farlo. Ma è un’impressione ingannevole, e il test dell’ingegnere strutturista Salvemini dimostra che la scialbatura riveste ormai un muro marcio.
Estratti (tutti veri) da un ipotetico sciocchezzaio di questi mesi, opera collettiva di politici, giornalisti, facce da talk show: noi siamo garantisti, non chiediamo le dimissioni di un politico raggiunto da un avviso di garanzia; siamo garantisti, aspettiamo il terzo grado di giudizio; finalmente il M5S ha scoperto il garantismo, ora che ha dei suoi esponenti indagati; lasciamo che la giustizia faccia il suo corso e i magistrati il loro lavoro, perché siamo garantisti, a differenza dei nostri avversari; da garantisti, ora speriamo che Pinco Pallino dimostri la sua innocenza; non commentiamo mai le scelte della magistratura e le vicende processuali, perché siamo garantisti, noi… Le sentite, adesso, le mura di Gerico che tremano?
Garantismo, per una mefistofelica inversione, sta diventando giorno dopo giorno sinonimo di piena e disciplinata sottomissione alla magistratura, ossia si sta trasformando nel suo antonimo. Può guadagnarsi il gallone di garantista chi lascia le mani libere ai pubblici ministeri, chi non si lamenta, chi non protesta, chi se ne sta quieto quieto e, meglio ancora, coopera con fiducia ed entusiasmo all’opera dei signori inquirenti, per tutto il tempo che ritengono necessario. Neppure George Orwell avrebbe osato immaginare una neolingua così perversa.
La deriva dei significati è lenta, e non sappiamo fin dove ci sospingerà, quali altri campi intaccherà dopo aver funestato il diritto. Forse gli etologi del futuro vorranno ribattezzare il comportamento di quegli scimpanzé che offrono simbolicamente il deretano al maschio dominante: ecco, diranno agli allievi, quelli li chiamiamo “primati garantisti”. E già che siamo nella scia dell’affaire Weinstein, chissà che qualche laboratorio farmaceutico non arrivi a sintetizzare la “droga da stupro” definitiva, più potente di tutti i sonniferi e i sedativi oggi a disposizione dei predatori sessuali. Se te la fanno prendere, si dirà, poi ti sottoponi docilmente a qualunque pratica sadomasochistica: manette, preliminari (intesi come indagini), gabbie, gogne, gradi di giudizio multipli. I giornali la chiameranno “pillola del garantismo”.