Chi si arma contro il circo mediatico
Del Sette, Ultimo, Scafarto. Il carabiniere a un anno dai primi schizzi di fango del caso Consip. L’orrore della gogna ha spinto l’Arma a ridefinire il confine tra chi persegue i reati e chi le persone. Un grande j’accuse contro la giustizia cialtrona, in un testo inedito
Sono passati dodici mesi esatti dal giorno in cui l’Italia ha cominciato a fare i conti con un’indagine importante che ha messo in un unico frullatore pezzi da novanta dello stato, pezzi da novanta del governo, pezzi da novanta della politica, il padre dell’ex presidente del Consiglio, magistrati, procuratori e persino carabinieri. Sono passati dodici mesi dal giorno in cui la famigerata inchiesta sulla Consip ha cominciato a occupare le prime pagine dei giornali, e nel corso di questi dodici mesi sono successe molte cose. Sono state indagate molte persone. Sono stati individuati alcuni capi di imputazione. Sono state messe da parte alcune indagini. Sono state scoperte alcune manipolazioni. Ma prima di ogni altra cosa, prima di ogni intreccio con la politica e prima di ogni pasticcio di una procura, al centro di tutto in un modo o in un altro è finita la figura del carabiniere.
Prima è finita al centro del dibattito per via di un’indagine sul comandante generale dei carabinieri Tullio Del Sette. Poi è finita al centro del dibattito per via di altre indagini e di altri accertamenti a carico di altri carabinieri e di altre forze dell’ordine. Il colonnello Alessandro Sessa, vicecomandante del Nucleo operativo ecologico dei carabinieri, è stato indagato dalla procura di Roma con l’accusa di depistaggio. Il capitano del Noe Giampaolo Scafarto, nel frattempo diventato maggiore, è stato indagato per falso e per rivelazione di segreto d’ufficio. Il capitano Sergio De Caprio è stato accusato (non indagato) da un pm di Modena di essersi mosso da “esagitato” nel tentativo di avvicinarsi quanto più possibile alla famiglia dell’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi.
In modo più o meno caotico, come è evidente, la figura del carabiniere è dunque finita al centro del dibattito pubblico e anche i non addetti ai lavori si sono a lungo interrogati per provare a rispondere a una domanda che c’entra e non c’entra con il caso Consip: qual è il limite oltre il quale non può spingersi un carabiniere? E soprattutto: quale deve essere il compito di un carabiniere quando collabora con un magistrato nell’ambito di un’indagine? Fino a oggi il generale Del Sette – che andrà in pensione entro fine mese e che dovrebbe essere sostituito da un nome che dovrebbe uscire da una quaterna formata dal generale di corpo d’armata Ilio Ciceri, il generale di Corpo d’armata Vincenzo Coppola, il generale di Corpo d’armata Giovanni Nistri e il comandante Massimo Amato – ha scelto la strada del non commento rispetto al caso Consip.
Ma a pochi giorni dal suo addio all’Arma ha scelto di pubblicare un libro destinato a uso interno che il Foglio ha potuto leggere e il cui titolo è più che evocativo: “L’etica del carabiniere”. E tra le righe del volume si nasconde un poderoso e importante j’accuse lanciato dai vertici dell’Arma contro i meccanismi del circo mediatico e contro tutti coloro che anche all’interno delle forze dell’ordine non fanno nulla per evitare che un’inchiesta possa diventare una palude densa di schizzi di fango. Il volume è denso di contenuti ma c’è qualche passaggio che spicca sugli altri laddove i vertici dei carabinieri invitano coloro che rappresentano l’Arma e dunque lo stato a non tradire alcuni princìpi. “Indagare senza condannare”. “Mai innamorarsi di un’ipotesi senza verificarla fino in fondo”. “La ricerca della prova e l’accertamento della responsabilità devono andare oltre ogni ragionevole dubbio”. “Si perseguono i reati, non le persone”. “Gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria debbono cercare e riferire fatti e nient’altro che fatti senza innamorarsi di un’ipotesi”. “Il carabiniere si adopera per individuare il colpevole, non per dimostrare la colpevolezza del sospettato”. Deve aiutare il magistrato a ricordare sempre che “nel procedimento penale il pubblico ministero rappresenta l’accusa ma ha anche l’obbligo di svolgere accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini”. E deve seguire, nello svolgimento delle indagini, un approccio simile a quello suggerito da uno dei personaggi più di successo dei romanzi di Gianrico Carofiglio, ovvero il maresciallo Fenoglio.
“La cosa peggiore che può fare un investigatore è innamorarsi della propria ipotesi, ignorandone le debolezze ed evitando deliberatamente di vedere gli elementi che si contraddicono”. Il grandioso manifesto contro gli orrori del circo mediatico-giudiziario – e contro le forze dell’ordine che cedono alla tentazione di partecipare a un’indagine mosse dall’idea non di dover far rispettare il codice penale ma di imporre prima di tutto un proprio codice morale – si conclude poi con un capitolo che andrebbe forse volantinato più all’interno delle stanze di alcuni magistrati che all’interno degli uffici dei carabinieri. Un passaggio che merita di essere ritagliato a futura memoria: “Quale che siano il suo ruolo, il suo grado, il suo incarico, egli non rende mai disponibili dolosamente a operatori dell’informazione o a chicchessia documenti coperti da segreto, mai si presta a essere utilizzato per interessi di parte, politici, economici o di qualsivoglia tipo”. Sintesi estrema: “Ciò che è irrilevante per un’indagine deve essere dimenticato”. Mettere un bavaglio a ciò che è irrilevante non è un bavaglio alla democrazia ma è un bavaglio alla cialtroneria. Vale per i carabinieri. Forse dovrebbe valere anche per i giornalisti. Intanto, prendete e volantinate.
L'editoriale del direttore