Il paese dove giustizia è politica
L’Italia sembra ormai condannata alla commistione permanente tra i poteri dello stato. Ma un antidoto c’è
Pubblichiamo stralci del nuovo libro di Annalisa Chirico, “Fino a prova contraria. Tra gogna e impunità. L’Italia della giustizia sommaria” (176 pagine, 12 euro), in libreria per Marsilio da oggi, 16 novembre.
Fino a prova contraria, “la legge è uguale per tutti” e “la giustizia è amministrata in nome del popolo”. Così recita la scritta che campeggia nelle aule dei tribunali italiani. Fino a prova contraria, “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”. Questo sancisce la Costituzione e questo s’insegna nelle facoltà di Giurisprudenza.
Eppure l’Italia sembra aver imboccato un sentiero che porta dritti verso un modello assai diverso da quello tipico delle democrazie liberali, fondato sulla separazione dei poteri e sulla supremazia della legge applicata da una burocrazia togata indipendente e imparziale. Da qualche decennio assistiamo a un processo all’apparenza irreversibile: la graduale trasformazione del nostro paese in una repubblica giudiziaria. Dove giustizia e politica s’intrecciano, si confondono, si equivalgono. Dove la legge è diseguale per tutti, muta nelle forme, nei tempi e nei contenuti a distanza di poche decine di chilometri. Dove l’amministrazione della giustizia non pare ispirarsi alla volontà del popolo sovrano, ma sembra piuttosto asservita alle mutevoli esigenze e ai capricci di chi dirige i singoli uffici giudiziari. Dove il principio costituzionale della presunzione d’innocenza è ridotto a un artificio retorico privo di riscontro pratico. Oggi “fino a prova contraria” è una formula senza senso, a causa di una gigantesca falla nel sistema. I processi durano troppo a lungo e in non pochi casi si estinguono prima di arrivare a sentenza. La giustizia sommaria, incentrata sul circo mediatico-giudiziario e sul sovradimensionamento dell’inchiesta, diventa l’unico strumento risolutivo, per quanto imperfetto, sul quale i cittadini possano contare. Le indagini, che dovrebbero rappresentare una mera ipotesi accusatoria, assumono il valore inappellabile di una condanna preventiva. Il dibattimento si riduce a un rito da espletare nel generale disinteresse per le sorti del processo. E’ una giustizia di primo impatto.
Nella repubblica giudiziaria gogna e impunità marciano unite. Nelle more dei dibattimenti senza fine i processi veri si celebrano sulle pagine dei giornali, le vittime apprendono l’arte del vivere con lentezza, i colpevoli restano a piede libero nell’attesa di una sentenza che li assicurerà – forse, un giorno – alla giustizia che non c’è.
Vige l’equazione giustizia=politica: l’intreccio incestuoso tra chi applica la legge e chi quelle leggi le fa ha sovvertito le regole democratiche. Siamo l’unico paese al mondo dove ben due magistrati hanno fondato un partito per candidarsi alla guida dell’esecutivo e un magistrato in aspettativa pretende di candidarsi, e si candida, alla guida di un partito. Siamo l’unico paese al mondo dove una corrente organizzata di magistrati scende in campo per contrastare, con comizi e pubbliche assemblee, un referendum promosso dal governo in carica. Come se prendere parte, schierandosi apertamente nell’agone politico, non costituisse una flagrante violazione del dovere di imparzialità imposto dalla Costituzione a chi è chiamato non solo a essere terzo, ma anche ad apparire tale.
Nel nostro paese Giustizia è Politica perché la magistratura ha conquistato una preminenza eccezionale, ha assunto il ruolo di suprema autorità incaricata di applicare il codice morale al posto di quello penale, al fine di imporre il “buon esempio”.
Giustizia è Politica perché nella repubblica giudiziaria il ministero della Giustizia è affollato di magistrati. Altri, di ordini diversi, collaborano con i ministri dei principali dicasteri. Altri ancora siedono in Parlamento e nelle assemblee politiche: dal 1994 in poi il numero dei togati parlamentari è triplicato rispetto al periodo precedente.
Giustizia è Politica perché la politicizzazione della giustizia italiana è un Giano bifronte: da una parte, taluni con indosso la toga perseguono obiettivi politici con mezzi giudiziari, acquisiscono notorietà non per le condanne ottenute ma per il clamore delle inchieste, gli arresti eccellenti, il protagonismo mediatico che si rivela poi un formidabile trampolino di lancio verso altri scranni. Dall’altra parte, una classe politica inetta e screditata politicizza la giustizia ogni qualvolta vi ricorre per risolvere questioni extragiudiziarie, strumentalizzando, all’occorrenza, avvisi di garanzia e arresti preventivi allo scopo di contrastare un avversario.
Giustizia è Politica perché, dopo anni di giustizia a orologeria, abbiamo scoperto la politica a orologeria. Si pensi all’inchiesta pomposamente denominata Mafia Capitale che ha tirato la volata al movimento di Beppe Grillo nella corsa al Campidoglio, mentre l’allora sindaco, Ignazio Marino, veniva infilzato dai suoi stessi colleghi di partito per una vicenda di scontrini risultata penalmente irrilevante. O al caso siciliano, dove una presunta intercettazione, rivelatasi inesistente, è diventata la “scintilla” per invocare il passo indietro del governatore Rosario Crocetta e accelerare il suo avvicendamento. “E’ il sintomo di un’altra anomalia italiana […]. La tentazione di agganciare ogni tentativo di ribaltamento degli equilibri politici a qualche iniziativa della magistratura, come se la politica avesse sempre bisogno di un appiglio giudiziario a cui attaccarsi, prima di muoversi”, ha commentato il procuratore di Palermo, Francesco Lo Voi, intervenendo pubblicamente per smentire l’esistenza della scellerata dichiarazione di cui non c’è traccia negli atti investigativi. Tacciare i politici di uso politico della giustizia: un’autentica novità dopo vent’anni trascorsi a discutere del contrario.
Giustizia è Politica perché nel vuoto decisionale lasciato da un legislatore timoroso, incapace di risolvere sul piano normativo questioni sensibili come matrimoni gay e fine vita, la magistratura è chiamata a colmare tali lacune a colpi di sentenze creative che “fanno legge” anziché limitarsi ad applicare quella esistente.
Giustizia è Politica perché ci sono magistrati pronti a imbastire indagini e processi non per accertare eventuali responsabilità, ma per riscrivere pezzi di storia patria, per condurre campagne moralizzatrici, per legittimare cure mediche bocciate dalla scienza ufficiale, per criminalizzare apparati dello Stato in nome di una pretesa, e indimostrata, verità.
Giustizia è Politica perché oggi l’Italia vive un’epoca radicalmente nuova: le toghe direttamente impegnate in politica sono una specie in via di estinzione, e la giustizia si fa politica grazie a un movimento che non conta nei suoi ranghi magistrati ma cittadini comuni, spesso senza un passato professionale alle spalle. Il M5s è la quintessenza del populismo giudiziario.
Deve la propria ragion d’essere alla delegittimazione della classe politica seguita ad alcune inchieste, perciò brandisce l’avviso di garanzia come un’arma contundente contro l’avversario, applica il principio del “siamo tutti colpevoli fino a prova contraria”, professa il ruolo salvifico dei magistrati, invoca l’espansione del controllo giurisdizionale.
L’equilibrio fra i poteri dello stato si dimostra sempre più precario. L’Italia sembra condannata alla commistione permanente. Altro che separazione, sia benedetto Montesquieu. […]
Il primato della politica
Esiste un antidoto contro la repubblica giudiziaria: si chiama “primato della politica”. Soltanto una politica forte, consapevole della propria missione, può essere il motore del cambiamento. Non è un caso che, in più occasioni, autorevoli magistrati, nonché il Consiglio superiore della magistratura, abbiano invocato l’intervento del legislatore al fine di regolare materie rilevanti per l’amministrazione della giustizia. Si pensi soltanto alle cosiddette “porte girevoli”: la delibera, adottata nel 2015 dal plenum di Palazzo dei Marescialli, prevede il divieto di svolgere contemporaneamente funzioni politiche e giurisdizionali (per scongiurare i casi di pm assessore o giudice sindaco, consentiti dalla legge vigente). Il documento approvato dall’organo di autogoverno della magistratura considera la “discesa in campo” del magistrato come un percorso irreversibile: al termine dell’esperienza politica, la toga deve essere ricollocata nei ranghi dell’Avvocatura dello stato o della dirigenza pubblica, senza che possa tornare a svolgere il ruolo di pm o giudice. Sono trascorsi mesi, anzi anni, e in Parlamento si discute una legge che vedrà la luce chissà quando e che, per paradosso, introduce norme più blande e permissive di quelle concepite dai magistrati. Che dire poi delle circolari di autoregolamentazione interne alle procure, ovvero dei ripetuti moniti, provenienti dalla magistratura associata, contro l’uso politico della giustizia a opera di chi brandisce avvisi di garanzia e soffiate giornalistiche per risolvere conti interni ai partiti. La supplenza togata è l’altra faccia dell’inerzia politica.
Un movimento fondato da un comico ha costruito il proprio successo elettorale sulla falsa credenza che i politici siano una massa di ladri e corrotti, e che il penale rappresenti la panacea di tutti i mali, il lavacro per la società intera. Meglio i buoni a nulla che i capaci di tutto. Nel “circo mediatico-giudiziario”, secondo la celebre definizione dell’avvocato francese Daniel Soulez Larivière, i capisaldi dello Stato di diritto vengono sacrificati sull’altare del fanatismo punitivo. L’articolo 27 della Costituzione? Da riformulare: siamo tutti colpevoli fino alla sentenza definitiva. La prescrizione? Va abolita. La democrazia rappresentativa? Meglio la tirannia del clic.
Per tornare a governare il fenomeno giudiziario, nelle sue molteplici sfaccettature e senza derive autoritarie (la paura dell’uomo solo al comando ha fatto sprofondare il paese nel pantano immobilista), serve una classe politica credibile. Spetta a essa, e non alla magistratura, il compito di selezionare il proprio personale. In questo quadro la burocrazia togata è un alleato, non un nemico. La stragrande maggioranza dei novemila magistrati italiani è composta da professionisti che intendono tutelare l’autorevolezza e l’onore della categoria. Il protagonismo di pochi getta discredito su tutti. Se la macchina dei tribunali si dimostra all’altezza delle aspettative dei cittadini, i magistrati sono più forti nella società.
Contro la repubblica giudiziaria dobbiamo anzitutto mettere in sicurezza l’abc dello stato di diritto. Basterebbe mandare a memoria la lezione di Giovanni Falcone sull’informazione di garanzia, “non una coltellata da potersi infliggere così ma qualcosa che deve essere utilizzata nell’interesse dell’indiziato”. E’ “profondamente immorale che si possano avviare delle imputazioni e contestare delle cose nella assoluta aleatorietà del risultato giudiziario”. “La cultura del sospetto non è l’anticamera della verità, è l’anticamera del khomeinismo”.
Una volta salvaguardati i pilastri della democrazia, si potrà ragionare sui diversi campi d’intervento. C’è una gigantesca questione organizzativa che non va elusa; esistono uffici giudiziari che, a parità di norme e risorse, registrano divari di produttività ragguardevoli. Un buon magistrato non è per forza un buon dirigente, oltreoceano il court manager non è laureato in Giurisprudenza ma in Business administration. Bisogna proseguire nella direzione di una magistratura specializzata per venire incontro alle esigenze delle imprese: le ragioni del diritto e dell’economia non sono destinate a fare a pugni, né può ritenersi libero il paese dove l’imprenditore onesto ha paura del magistrato. C’è un’eccessiva domanda di giustizia, un gran numero di illeciti sarebbero affrontati in modo più efficace e celere nell’ambito della stessa amministrazione e, in ogni caso, con metodi di risoluzione extragiudiziale. E’ necessario separare le carriere di magistrati e giornalisti, non limando l’ennesimo avverbio di un divieto già in vigore, ma introducendo sanzioni effettivamente dissuasive (una multa di poche decine di euro non lo è). E, infine, quale effetto deflattivo avrebbe sul carico pendente l’introduzione di una regola semplice semplice: se lo stato ti assolve, nessun tribunale può processarti una seconda volta per i medesimi fatti. E’ il principio del ne bis in idem, un’invenzione degli antichi romani.
Nella Via della schiavitù Friedrich von Hayek ricorda che una società imbocca il sentiero dell’autoritarismo quando “si diffonde l’idea che, se si vuole che le cose vengano fatte, le autorità responsabili devono essere liberate dalle catene della procedura democratica”. Serve una classe politica che torni a fare, a decidere. Se così non accadrà, si affermerà l’ingannevole idea che la dittatura dell’algoritmo sia, tutto sommato, un’alternativa preferibile a pastoie procedurali e parlamenti vintage. E’ la sfida del futuro, anzi, del presente.
L'editoriale del direttore