Tanto per cambiare, è l'Italia il paese i cui cittadini sono i più intercettati al mondo
76 ogni 100.000 abitanti, 140 volte più che negli Usa. Il problema non solo di privacy dei trojan e la riforma che non riformerà
Roma. Il quotidiano britannico Guardian ha riportato con preoccupazione la notizia delle intercettazioni realizzate dalla procura di Palermo nei confronti di alcune conversazioni tra un suo giornalista (italiano) e una delle sue fonti, nell’ambito di un’inchiesta su un presunto trafficante di esseri umani. Si tratta di una notizia difficilmente concepibile per la cultura anglosassone e il motivo è presto detto: in nessun paese occidentale si realizzano così tante intercettazioni come in Italia.
I dati parlano chiaro: nel 2015, come riportato nell’ultima Relazione sull’amministrazione della giustizia, in Italia sono state realizzate 132.749 intercettazioni. Quattro volte il numero di intercettazioni compiute in Francia. Oltre quaranta volte il numero di captazioni effettuate in Gran Bretagna e negli Stati Uniti (sono escluse le attività compiute dai servizi segreti). Le comparazioni a livello internazionale sull’uso di questo strumento investigativo sono rare, ma un rapporto realizzato nel 2004 dal centro studi tedesco Max Planck Institute for Foreign and International Criminal Law sottolineava come l’Italia sia il paese con il più alto numero di intercettazioni pro capite (76 ogni 100.000 abitanti), lontanissimo da Francia (23,5), Germania (15), Gran Bretagna (6) e Stati Uniti (0,5). In altre parole, la probabilità che un cittadino sia intercettato in Italia è 140 volte più alta che negli Stati Uniti (escluse comunque, anche in questo caso, le captazioni compiute dai servizi segreti).
A una maggiore limitazione della propria libertà personale si aggiungono i costi economici di questa pratica: nel 2015 lo stato italiano ha sborsato 230 milioni di euro per effettuare tutte le intercettazioni (e nel 2014 erano stati 250 milioni).
A cos’è dovuto questo uso diffuso – spesso sconsiderato – delle intercettazioni in Italia? Colpa delle norme troppo morbide? “In realtà altri stati hanno normative che apparentemente sono più permissive della nostra, sia per i reati per i quali si può intercettare che per la durata delle captazioni – spiega l’avvocato Rinaldo Romanelli, componente della giunta dell’Unione Camere Penali Italiane ed esperto di intercettazioni – In Francia, per esempio, possono essere disposte intercettazioni per la durata di quattro mesi, mentre da noi la durata dell’intercettazione ordinaria è di 15 giorni e al termine il giudice deve rinnovare l’autorizzazione se permangono i presupposti. Negli Stati Uniti la normativa è abbastanza eterogenea perché ci sono reati federali e quelli dei singoli stati, ma per intercettare è sufficiente che un reato sia punibile con una pena superiore a un anno, una soglia molto bassa”. “Il discrimine – prosegue Romanelli – sta nell’applicazione concreta delle norme, cioè nella valutazione che il giudice fa dell’assoluta necessarietà dell’utilizzo di questo strumento investigativo. Negli altri paesi, il giudice dispone l’autorizzazione alle intercettazioni solo se ricorrono i presupposti previsti dalla legge e se l’organo requirente dimostra che non può reperire dati investigativi se non attraverso le intercettazioni. Da noi invece questo profilo valutativo, che pure è previsto in modo chiarissimo dal codice, nella pratica non si rinviene”.
Il codice di procedura penale italiano, infatti, prevede che le intercettazioni possano essere disposte solo per reati per i quali è prevista una pena superiore a 5 anni, di fronte a gravi indizi di colpevolezza, per una durata massima di 15 giorni e solo se sono assolutamente indispensabili alla prosecuzione delle indagini. “Ciò non avviene nella prassi – sottolinea Romanelli – Spesso non c’è un quadro indiziario che giustifichi l’utilizzo delle intercettazioni e queste vengono disposte anche quando non sono uno strumento assolutamente indispensabile. Sono frequenti i casi in cui i pubblici ministeri chiedono e ottengono l’autorizzazione a intercettare ipotizzando gravi reati (ad esempio l’associazione per delinquere, i cui tratti sono difficili da delineare), senza che vi siano sufficienti indizi e solo per poter indagare su altri reati per i quali non è prevista la possibilità di intercettare”.
Non è, dunque, un problema di norme: “Il problema sta nella cultura di chi esercita la giurisdizione, perché la funzione del giudice dovrebbe essere quella di garantire i diritti del cittadino che si trova coinvolto in un procedimento penale. Ma quando pm e giudice fanno parte dello stesso ordinamento, fanno lo stesso concorso e la stessa carriera (cosa inconcepibile, ad esempio, in Gran Bretagna), la giurisdizione finisce per perdere la sua funzione di terzietà”.
Lo scenario è reso ancor più preoccupante dal crescente impiego, durante le investigazioni, del trojan, il virus informatico autoinstallante attivato sui dispositivi elettronici (pc, smartphone, tablet) che può captare ogni forma di comunicazione e anche videoregistrare il bersaglio, ovunque vada: “Poiché il domicilio è un bene particolarmente tutelato dalla nostra Costituzione, la normativa prevede che non si possano fare intercettazioni ambientali a meno che all’interno del domicilio non si stia svolgendo la condotta delittuosa. C’è dunque una relazione tra il domicilio violato e l’indagato – spiega Romanelli – Il trojan invece viene in giro con me ovunque io vada. Per cui se io vado a casa di un amico anche lui viene intercettato, il suo domicilio viene violato anche se non ha nessun rapporto con l’indagine. Il trojan quindi apparentemente sembra un’intercettazione ambientale, ma ha un potere invasivo infinito, perché con questa microspia posso andare a casa di chiunque, anche del presidente della Repubblica”.
La riforma del processo penale e il recente decreto sulle intercettazioni voluto dal Guardasigilli Andrea Orlando non sembrano consegnare speranze di cambiamento: “Non si è in alcun modo intervenuto sull’uso delle intercettazioni. Anzi, sotto il profilo dei presupposti applicativi, la riforma Orlando facilita l’impiego delle intercettazioni per i reati più gravi contro la pubblica amministrazione commessi da pubblici ufficiali”.