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Le caste nascoste

Riccardo Lo Verso

Stanare i corrotti nella politica, un mantra giudiziario che ha finito per occultare altre malefatte: nella magistratura, nell’università

È nelle stanze della politica che bisogna stanare i corrotti. Per anni è stato un assioma investigativo, che ha finito per divenire un paravento. Il paravento che ha nascosto le malefatte consumate in altri palazzi. E cioè nelle sedi delle università dove la legalità si insegna sotto forma di diritto e nei Tribunali dove i principi del bene comune si applicano in nome del popolo italiano.

Servirebbe un mea culpa generale. Quanto meno per tentare di trovare una giustificazione alla miopia dilagante. Alcune recenti inchieste giudiziarie hanno svelato l’esistenza di veri potentati: la magistratura e il mondo accademico, con una commistione di interessi quanto meno sospetta.

Più che di potentati in realtà si dovrebbe parlare di protettorati nel senso tecnico del termine. Lo Stato ha protetto due sistemi di potere eliminando la barriera dei controlli, fino a provocare la necrosi della legalità e del merito.

 

Lo stato ha protetto due sistemi
di potere eliminando la barriera
dei controlli, fino a provocare
la necrosi della legalità e del merito

A Palermo è scoppiato il bubbone della Sezione misure di prevenzione, quella che sequestra e confisca i patrimoni dei mafiosi e degli imprenditori sospettati di essere in combutta con i boss. Alle cronache è ormai passato con la definizione “sistema Saguto”, dal nome di Silvana Saguto, ex presidente oggi sotto processo a Caltanissetta e sospesa dal Csm. Stipendio decurtato fino a un terzo, in attesa che venga definito il procedimento disciplinare. Saranno i giudici di Caltanissetta a stabilire se il magistrato sia colpevole dei reati di corruzione, riciclaggio, falso e abuso d’ufficio. Sin d’ora, però, anche il più inguaribile degli ottimisti, è obbligato a confrontarsi con la fotografia di un intreccio malsano che va oltre le misure di prevenzione.

 

Nelle scorse settimane è finito agli arresti domiciliari Luca Nivarra, ordinario di Diritto civile della facoltà palermitana di Giurisprudenza, al quale è stato poi concesso di tornare a casa. Per garantire le esigenze cautelari basta l’interdizione dall’esercizio delle funzioni di amministratore di patrimoni e fondazioni. Un giurista molto impegnato Nivarra, politicamente schierato a sinistra. Componente della consulta giuridica della Cgil nazionale, in prima linea nella difesa dei diritti civili. Nel 2012 è stato candidato al consiglio comunale di Palermo nella lista che univa Rifondazione comunista e Verdi e che appoggiava il sindaco Leoluca Orlando. Pochi mesi dopo Claudio Fava lo aveva designato come assessore al Territorio qualora fosse divenuto presidente della Regione.

Ha fatto carriera Nivarra, all’Università e nel dorato mondo delle consulenze assegnate dal Tribunale di Palermo. Fino a quando non è scivolato nella gestione del patrimonio di un facoltoso possidente. Se i parenti non avessero impugnato il testamento non sarebbe mai venuto a galla un ammanco di trecentomila euro. Soldi pagati per l’affitto di una cinquantina di immobili e finiti, così sostiene l’accusa, nelle tasche di Nivarra e dell’avvocato Fabrizio Morabito, suo braccio destro prima e successore poi.

 

Ed ecco l’intreccio. A nominare Nivarra, nel 2006, amministratore provvisorio dell’eredità di Bartolomeo Sapuppo, questo era il nome del possidente, era stato il collegio del Tribunale civile allora presieduto da Tommaso Virga, pure lui rinviato a giudizio e trasferito da Palermo a Roma quando è finito sotto inchiesta assieme a Saguto. Ora è imputato per abuso d’ufficio. Da qui l’ipotesi che ci fosse “un accordo corruttivo”, seppure prescritto, tra il magistrato e il professore Nivarra, che in cambio avrebbe favorito la carriera accademica di un giovane avvocato, Walter Virga, figlio di Tommaso. Nivarra aveva dapprima nominato Virga jr “cultore della materia nel 2003”, poi era stato relatore della sua tesi di dottorato nel 2007 e infine era stato membro interno nella commissione che nel 2014 gli assegnò il titolo di ricercatore. Le loro strade si erano già incrociate un anno prima, quando Nivarra era il presidente dell’Accademia di Belle Arti di Palermo che assunse Virga jr con un contratto di docenza a termine, rinnovato per due anni, in “Diritto, economia e legislazione dello spettacolo”.

 

Il bubbone della Sezione misure
di prevenzione, che confisca
i patrimoni dei mafiosi e degli imprenditori sospettati di collusioni

Il 2014 è l’anno della svolta professionale del giovane Virga, finito sotto l’ala protettiva del giudice Saguto e scelto come amministratore giudiziario di due grossi sequestri. Virga non si è dimenticato del professore Nivarra e gli affida consulenze legali per 45 mila euro che sono costate ad entrambi un’incriminazione per falso e truffa. Sarebbero state un inutile duplicato del lavoro fatto da altri e già pagato. Virga jr è ormai lanciatissimo, nonostante la stessa giudice Saguto lo considerasse un ragazzino da niente”. La sua nomina “era volta all’esclusivo scopo di compiacere Tommaso Virga da cui essa si attendeva autorevole sostegno presso il ministero della Giustizia, il Csm, l’Associazione nazionale magistrati e la stampa”.

 

Una nomina che non suscitò imbarazzo né perplessità sugli altri giudici del collegio. Come Fabio Licata, pure lui sotto processo, che qualche giorno fa in aula lo ha descritto come un fatto normale. Non solo alle misure di prevenzione, ma anche nei settori civile, penale e fallimentare, nell’ultimo ventennio sono sempre stati assegnati incarichi a parenti di magistrati senza che si sia mai gridato allo scandalo. Licata ha fatto i nomi di alcuni suoi colleghi per dare forza ad un ragionamento che può essere così sintetizzato: si presume che il parente di un magistrato offra garanzie di “affidabilità e moralità”. Il problema è che nel passaggio dalla teoria alla pratica, almeno così pare emergere dalla vicenda Saguto, l’amministrazione della giustizia ha finito per diventare una personale riserva di caccia, mandando in frantumi la presunzione sull’integrità morale di un’intera categoria.

 

La carriera di Luca Nivarra, ora sotto inchiesta, all'università e nel dorato mondo delle consulenze assegnate dal Tribunale di Palermo

La carriera nelle amministrazioni giudiziarie del giovane Virga è stata speculare a quella accademica. I titoli universitari sono divenuti un vestito da cucire addosso al rampante avvocato affinché nessuno potesse mettere in discussione i suoi meriti e la scelta di nominarlo nelle gestioni patrimoniali. E’ un cliché che, d’altra parte, si è ripetuto con un altro prof entrato nelle grazie di Saguto. E cioè Carmelo Provenzano, docente all’Università Kore di Enna, affiancato dal Tribunale ad un altro amministratore nella gestione di un colosso del calcestruzzo. La prima nomina rispondeva ad una logica spartitoria, tanto che era l’ex presidente a rammaricarsi di avere scelto “un ragazzetto che non so come farà, adesso io devo nominare un coadiutore giusto perché sennò…”.

La scelta cadde su Provenzano che aveva nel frattempo indossato, pure lui, il vestito buono del mondo accademico. “E’ un docente e non può dire niente nessuno”, diceva Saguto.

 

Come era già accaduto per Nivarra-Virga jr, le fortune del Provenzano amministratore giudiziario si incrociano con la carriera di uno studente universitario. Si chiama Emanuele Caramma ed è il figlio del giudice Saguto e del marito Lorenzo Caramma, ingegnere e consulente di Gaetano Cappellano Seminara, recordman di incarichi nelle amministrazioni giudiziarie assegnate dai Tribunali siciliani. Il giovane Caramma nel 2015 ottenne il massimo dei punti dalla magnanima commissione di laurea della facoltà di Scienze economiche e giuridiche dell’Università di Enna presieduta da Roberto Di Maria. La tesi non era farina del suo sacco. Gliela aveva scritta Provenzano. Persino il giovane Caramma ebbe un rigurgito di pudore se è vero che i genitori intercettati di lui dicevano che “è disperato perché sa che questa laurea è una farsa. Gli altri sgobbano per prenderla e lui invece non ha faticato”. La carriera di Provenzano come amministratore giudiziario prese il volo. Si sarebbe adeguato in fretta piazzando parenti qua e là nelle amministrazioni. La moglie psicologa, ad esempio, si occupava di banche e informatica. Ma nessuno l’avrebbe mai vista al lavoro. La cognata invece “lavorava” da casa per gentile concessione di un altro amministrazione, Nicola Santangelo, che il professore della Kore presentò a Saguto per alcuni incarichi. Ormai, d’altra parta, era un “docente” su cui “non può dire niente nessuno”.

 

Più di qualcosa ci sarebbe da ridire anche sul mondo universitario. E non solo per le vicende di Virga jr e Provenzano. Una recente inchiesta della Procura di Firenze ha svelato “il vile commercio dei posti” per l’abilitazione all’insegnamento di Diritto tributario nelle università italiane. Si è partiti dal capoluogo toscano per finire in Sicilia. In particolare dentro l’Ateneo di Palermo. Gli atti giudiziari ricostruiscono lo scontro fra due cognomi pesanti nel mondo accademico siciliano. I professori Salvatore Sammartino e Andrea Parlato sponsorizzavano i loro candidati. Il primo è ordinario di Diritto tributario. Il secondo, oggi in pensione, lo è stato di Scienza delle finanze. Alla fine “l’abilitazione a coppie” accontentò entrambi i contendenti, obbedendo al principio del “do ut des” applicato su scala nazionale: i prof si scambiavano i favori. Oggi a me, domani a te. Chi faceva ritirare un candidato sapeva che l’anno successivo qualcun altro avrebbe fatto la stessa cosa, alimentando la catena di favori. La logica della spartizione avrebbe spazzato via ogni concorrenza. “Così è il discorso, uno a uno e palla a centro”, ammettevano i docenti. Parlato esprimeva giudizi pesanti su un candidato della fazione opposta che si presentava “sempre col volume sullo Statuto, volume che lei ha rifatto in edizione provvisoria per partecipare al concorso di ricercatore”. Sammartino lanciava il suo aut aut: “O passano questi o noi diciamo no a tutti ed allora gli altri dovranno per forza cadere”. Finì che agli esami di Bologna passarono i candidati di entrambi gli schieramenti.

 

"Vile commercio dei posti"
per l'abilitazione all'insegnamento
di Diritto tributario, dice un'inchiesta della procura di Firenze

Forse è anche per questo che nessuno si mostrò particolarmente sorpreso quando l’anno scorso uno studio di due ricercatori italiani dell’Università di Chicago fece emergere il nepotismo imperante negli atenei italiani dove il ripetersi di certi cognomi fra docenti e aspiranti tali è patologico. “Il nepotismo segnala un problema più generale nel reclutamento. Se un professore può mettere in cattedra il figlio, allora potrà mettere in cattedra chiunque”, commentava uno dei due autori della ricerca, il biologo Stefano Allesina. Nessuno può impedire che i figli di professori ambiscano essi stessi alla carriera universitaria. Ci mancherebbe. Una maggiore rigidità servirebbe innanzitutto a loro per sgombrare il campo dai sospetti. Nel frattempo il tema della meritocrazia potrebbe essere messo all’ordine del giorno di uno dei tanti convegni organizzati dalle attivissime università siciliane. Giusto una parentesi, ad esempio, nell’eterno dibattito fra mafia e antimafia che appassiona, e parecchio, l’ateneo palermitano specie nella declinazione della trattativa Stato-mafia. Dibattiti su dibattiti in cui le voci critiche sono subito catalogate alla voce negazioniste o giustificativiste del presunto patto fra i boss e pezzi delle istituzioni durante a cavallo delle stragi di mafia. Un patto la cui esistenza viene postulata, anche e soprattutto nei convegni, ancora prima delle sentenze processuali.

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