Va bene punire Bellomo, ma la magistratura ha problemi più urgenti
Non pervenuti, nella storia (bizzarra) del consigliere di Stato, i princìpi di precauzione, di non colpevolezza e di proporzionalità
Dai resoconti delle vicende che hanno condotto il Consiglio di stato a destituire il magistrato Francesco Bellomo traspare un registro narrativo monocorde improntato alla generale indignazione e alla condivisione unanime della massima sanzione inflitta in quest’occasione dal Supremo Consesso della giustizia amministrativa a uno fra i suoi più discussi esponenti. Le cronache, in effetti, hanno narrato di comportamenti più che bizzarri del Bellomo, di corsi d’insegnamento a pagamento (destinati a coloro che intendevano superare l’esame di magistratura) messi su un po’ troppo disinvoltamente da giudici di ogni ordine e grado, e di una certa tendenza strampalata di un consigliere di stato a confondere la lodevole ossessione per gli studi giuridici con quella meno nobile per la vita sentimentale delle proprie allieve. Allieve che, sempre stando alle pagine dei quotidiani, sarebbero state disposte a recitare il ruolo delle inconsapevoli vittime sacrificali pur di carpire gli arcani misteri posseduti dai più qualificati fra gli iuris periti. Al netto della brodaglia pruriginosa che si dimentica essere stata alimentata, in tesi, (come è d’obbligo sottolineare in questi casi) da adulte libere e consenzienti, capaci di comprendere il significato della sottoscrizione di un contratto degno dei migliori reality show, rimane la sensazione che il Consiglio di stato abbia voluto concedere troppo al “giustizialismo di genere” e al populismo anticasta più in senso lato.
A oggi, vale la pena ricordarlo, non sono stati accertati reati a carico dell’ex magistrato Bellomo, né i racconti delle presunte vittime sono stati sottoposti ad alcun contraddittorio dibattimentale e forse (non è dato saperlo) nemmeno a un confronto in sede amministrativa, e neanche sono state contestate gravi inadempienze sotto il profilo dell’esercizio della funzione giurisdizionale. Eppure il Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa (l’equivalente del Csm per i magistrati del Tar e del Consiglio di stato) ha proceduto a comminare la più grave fra le sanzioni che avrebbe potuto in teoria infiggere a un magistrato amministrativo, previo parere espresso quasi all’unanimità da tutti i colleghi dello stesso Francesco Bellomo. Non pervenuti, in tutta questa corsa serrata a quella che è parsa essere un’esigenza di purificazione a uso collettivo, i princìpi di precauzione, di non colpevolezza e di proporzionalità. Princìpi cardini di uno stato di diritto che la giurisprudenza italiana (anche quella amministrativa) ha insegnato essere pressoché inderogabili per salvaguardare i diritti fondamentali dell’individuo e per non tramutare la giustizia del caso concreto (che deve tenere conto esclusivamente di ciò che è realmente accaduto) in un monito intimidatorio per scopi di futura deterrenza.
Avendo a disposizione la possibilità di irrogare sanzioni meno afflittive, in attesa dei doverosi accertamenti penali, è soprattutto il principio di proporzionalità che appare essere stato sacrificato ogni oltre misura, anche perché l’ex Consigliere Bellomo ha agito da tempo in un contesto all’interno del quale risulta difficile pensare che la consapevolezza di alcune fra le sue condotte poco commendevoli facesse difetto a qualcuno dei suoi numerosi colleghi.
Rimane il dubbio, in definitiva, che la necessaria, meritoria e improcrastinabile opera di “riallineamento” dell’immagine dei magistrati amministrativi (che dovrebbe partire innanzitutto dal superamento dei doppi incarichi, della presenza invadente nelle segreterie dei ministeri e dall’introduzione del divieto di ricoprire la carica di magistrati una volta conclusasi un’esperienza politica di alto livello) abbia preso le mosse dal bandolo sbagliato della matassa.