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Cappato libero?

Fabio Cammalleri

La richiesta di assoluzione per il leader radicale sul caso DjFabo è giusta, ma per i motivi sbagliati

“Noi pubblici ministeri rappresentiamo lo Stato, non siamo gli avvocati dell’accusa come in altri ordinamenti, pur civilissimi. Io mi rifiuto di essere l’avvocato dell’accusa. Io rappresento lo Stato e lo Stato è anche l’imputato Cappato. E’ nostro dovere cercare prove anche a favore dell’imputato e anche alla luce del dibattimento che è stato svolto, è nostro dovere sollecitare la formula assolutoria per Cappato”. Così, la dott.ssa Tiziana Siciliano, pubblico ministero di Milano, nel processo a carico di Marco Cappato.

   

Mai un’ottima assoluzione fu tanto impropriamente sostenuta. Cappato va assolto: per una quantità di buone ragioni. La principale delle quali, però, è di là da venire: l’abrogazione del reato che gli si è imputato: istigazione o aiuto al suicidio. Una norma tortuosa che punisce il suicidio, non volendo punire il suicida. Nell’unico modo che resta possibile: considera i vivi a lui vicini nell’ultimo atto, suo simulacro: e, in via mediata, accusa un’Effigie. Reintroducendo un arnese inquisitorio per via traverse, e riconsegnando il “foro interno” alla disciplina epistemica del diritto penale.

   

Tortuosità che si infittisce, se si considera poi che, nei termini in cui è costruita la fattispecie, è facilissimo scivolare nella assai più grave ipotesi di omicidio aggravato (per la ricorrente, varia, minorità della persona che si suicida): cosicché, per un atto pietoso, ci si espone seriamente al rischio dell’ergastolo. Senza il suo equivoco ingombro, resterebbero invece compresi nel raggio d’azione del reato di omicidio (e non più di istigazione al suicidio) solo casi di tutt’altra natura: in cui l’assenza di pietà, e viceversa, la presenza di abiezione, sono di più agevole interpretazione: a cominciare dalle derive eutanasiche in grandezza di scala, giustamente temute.

   

S’intende che il cascame medievale risiede nella rilevanza penale del fatto. Discutere della “bontà” o “moralità” del suicidio è invece ben diversa questione: complessa, che si deve poter porre liberamente, ma irrisolvibile con i ceppi: proprio per la loro rozza monoliticità. Fin qui siamo rimasti fuori dal presente del processo, volti al futuro della Legge. E tuttavia, quello che non c’è appare fittamente intrecciato a quello che c’è. E veniamo così al pubblico ministero.

   

Quel “noi pubblici ministeri rappresentiamo lo Stato”, nei termini apodittici in cui è stato formulato, suona come impropria rivendicazione. Fosse o meno, questo effetto, nelle intenzioni del magistrato. Tuttavia, essa risale a un’origine: perniciosa, illiberale, ma, allo stato, legittima. Questo è il punto. Il “velen dell’argomento” risiede proprio nella facoltà di chiedere l’assoluzione dell’imputato, e nell’altra, connessa, di svolgere accertamenti anche “a favore della persona sottoposta alle indagini”. E’ noto che si tratta di un clamoroso “dovere senza sanzione” (quando voglio, sì; e quando non voglio, pazienza).

   

Questo può accadere per una sorta di schizofrenìa giuridico-culturale. Nel processo accusatorio, quale il nostro non è, ma avrebbe voluto essere, il pm è proprio un “avvocato dell’accusa”. Esattamente il contrario di questo “non possiamo, non vogliamo, non dobbiamo”, tanto stentoreamente pronunciato. E però, con quella recisa negazione, si ribadisce che, ancora oggi, in Italia, il pubblico ministero è in condizione di animare in concreto e, quindi, di autodefinire, i limiti e i caratteri del suo stesso ruolo: “magistrato”, “Collega del Giudice”, “Parte imparziale”. Tutto, fuorché “avvocato”; cioè, Parte Processuale.

   

“L’azione penale”, proprio per la ragione che è funzione pubblica di un Ufficio Parziale, in nessun modo potrebbe dirsi “rappresentare lo Stato”, cioè, la totalità. Nello stesso ambito funzionale della giurisdizione, l’unica totalità (se proprio si vuole approssimare la giurisdizione a una qualche “rappresentanza dello Stato”) è la sintesi compiuta dal Giudice. Soprattutto, per una essenziale qualità si dovrebbe riconoscere, anche simbolicamente, dignità all’azione di Cappato: quella di “imputato”, cioè di uomo libero, e munito dei suoi diritti politici e civili. E’ sembrato invece che un simile riconoscimento potesse aver luogo, solo se rivestito delle insegne dello “Stato”. Tale però, in tempi di hegelismo carsico di ritorno, è la sola grammatica ammessa: la stessa da cui tuttora muove quel ruolo ambiguo: quello che invece “non si rifiuta”. Ruolo oggi tanto più insidiosamente irrobustito, in quanto ha impugnato una bandiera di libertà.

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