Attorno alla condanna di Travaglio per diffamazione di giudici sulla Trattativa
Magistrati, giornalisti e processi alla "Storia"
Un paio di giorni fa Marco Travaglio, direttore del Fatto Quotidiano, è stato condannato dal Tribunale di Roma per diffamazione su querela di tre magistrati: Mario Fontana, Wilma Angela Mazzara, Annalisa Tesoriere. Il 17 Luglio 2013, in quanto Tribunale di Palermo, avevano assolto il generale Mori e il colonnello Obinu dall’accusa di avere favorito la latitanza di Bernardo Provenzano: 1995, casolare di Mezzojuso, omessa cattura. Il 15 ottobre 2013 in un articolo intitolato “La cluster-sentenza”, Travaglio scrive: “…nelle prime 845 (pagine) non parlano del reato contestato ai loro imputati: cioè la mancata cattura di Provenzano” e aggiunge: “Si avventurano invece nella storia delle stragi e delle trattative del 1992-’93, oggetto degli altri due processi”; la sentenza “non si limita a incenerire le accuse del processo in cui è stata emessa ma, già che c’è, si porta avanti, e fulmina anche altri processi, possibilmente scomodi per il potere”. La metafora di una sentenza che, come l’omologa bomba, distrugge “a grappolo”, e l’attività dei giudici tacciata di avventurismo, certo possono spiegare la condanna. Ma la provvisionale, 150 mila euro, anche secondo l’avvocato di parte civile, è “una cifra mai vista”. Il ruolo di Travaglio non va sottovalutato, né sopravvalutato: va inquadrato, perché la sua valutazione isolata velerebbe la scena complessiva in cui compare. Ecco la scena.
Quattro giorni dopo, il 19 ottobre, il procuratore aggiunto di Palermo, Vittorio Teresi, aveva rilevato che quei giudici avevano dedicato “le prime ottocento pagine a un tema che è stato trattato dall’accusa solo come ipotesi di movente”, occupandosi “solo in minima parte del tema principale del processo, cioè della mancata cattura di Provenzano”. A compendio delle sue critiche, attribuendo un voto ideale alla sentenza: “quattro meno”. A parte i riferimenti bellici e avventuristici, del solo Travaglio, per entrambi, dunque, il Tribunale si era occupato della c.d. Trattativa: e non avrebbe dovuto, se non di straforo. Singolare critica, poiché la stessa Procura, in primo grado, aveva contestato formalmente la c.d. “aggravante teleologica”: “Mancata cattura”, in relazione, oggettiva e tangibile, alla Trattativa. Ma presto, il 21 ottobre 2013, la scena cambia: Teresi torna sulla vicenda; definisce “infelici e improvvide” le sue precedenti dichiarazioni, e scandisce: “Ribadisco le mie scuse ai colleghi interessati”. Dal Fatto, invece, nessuna modificazione o integrazione delle precedenti critiche. I contrasti fra magistrati sembravano volti al chiarimento. Anche se si era intanto aperto un procedimento disciplinare sul Procuratore (ma si concluderà, nel 2016, con la sua assoluzione). Senonché, qualche tempo dopo, i tre giudicanti scrivono una lettera, destinandola a tutti i colleghi degli Uffici giudiziari di Palermo. A mente fredda, pur dando atto delle scuse prontamente manifestate (sebbene stimate “generiche”), osservano che sarebbe stato “per noi più soddisfacente”, se il collega (“Vittorio”), fra l’altro, avesse pubblicamente riconosciuto “l’inopportunità di intrattenere relazioni con persone che dileggino o insultino i suoi colleghi giudici”.
Questo è il centro della scena: le “relazioni”, fra magistrati e un giornalismo che dileggia e insulta. Nella lettera, il riferimento immediato era stato ad un altro articolo, apparso su un giornale locale online, “Antimafia 2000”, e definito da Teresi “delirante atto criminale”; però, i tre giudici, avevano ugualmente riproposto il richiamo alla “inopportunità” delle “relazioni”; pertanto, l’osservazione manteneva un carattere di ordine generale (d’altra parte, avrebbero poi querelato anche Travaglio e Il Fatto). Ma perché, simili relazioni? Forse perché, in casi come quello sulla Trattativa, va a processo non una condotta, ma “la Storia”. E non se ne è fatto mistero: “Questo processo riguarda un momento importante della storia del nostro paese” (pm Tartaglia, nella sua discussione finale); “Un’inchiesta giudiziaria consente di rischiarare la storia politica con mezzi coercitivi di cui gli storici non dispongono” (ancora Teresi, ottobre 2014). Calamandrei, però, scriveva che se “lo storico” può esplorare “il mondo… senza limiti di tempo e di luogo”, questa esplorazione “è inibita al giudice”. Limiti di tempo; limiti di luogo. Processi che durano da venticinque anni. Ogni segno palese sciolto nella vastità dell’invisibile. Oltrepassate quelle barriere, la ricerca si compie su se stessa, e si impantana in un intrico di congetture, di “nessi narrativi”. La fabbriceria del commento, della glossa, dell’esegesi autorizzata, è allora effetto collaterale di questa impropria postura istituzionale. Non il contrario. Si è registrato il sintomo: si curi la malattia.