Querele ed ex onestà
Breve storia degli insulti di Raggi al Pd romano. Il caso non è chiuso e non ci sono più lezioni da dare
Roma. All’ombra del Consipgate, prosegue un avvincente ping-pong tra la procura capitolina e i vertici del Partito democratico. Per carità, la vicenda sarebbe di per sé marginale, eppure nei conversari riservati al Nazareno qualcuno allude a un significato meta-giudiziario. Fatto sta che il 28 marzo il partito di Matteo Renzi e il procuratore aggiunto Paolo Ielo si confronteranno in un’aula del tribunale di Roma attorno a una querela. L’indagata si chiama Virginia Raggi. Raccontiamo i fatti dal principio, rewind.
Nell’ottobre 2016, a pochi mesi dal referendum costituzionale, il Pd querela il sindaco di Roma per diffamazione. “AFFARI CON MAFIA CAPITALE? MICA SIAMO IL PD”, verga su Facebook l’esponente grillina. Il tesoriere del Pd Francesco Bonifazi legge quel testo, strabuzza gli occhi e tira dritto in procura: “E’ mio dovere difendere l’onorabilità di una comunità politica”, l’annuncio urbi et orbi. Su Twitter il sindaco rincara la dose enfatizzando la presunta diversità antropologica del M5s: “I cittadini sanno che quel sistema lo hanno creato loro. Noi lo combattiamo”. Nell’atto di denuncia si evidenzia come le affermazioni della prima cittadina suggeriscano una forma di “intraneità e connivenza” tra il partito e l’organizzazione criminale di Buzzi e Carminati (che, stando alla sentenza di primo grado, sarebbe piuttosto da ribattezzare Mazzetta capitale, la mafia è un’altra storia). Passano pochi mesi, il referendum del 4 dicembre va come sappiamo, Matteo Renzi si dimette da Palazzo Chigi, l’inchiesta Consip trafigge il cuore del potere renziano ed è trasmessa per competenza a Roma. Il 18 gennaio 2017 il procuratore aggiunto Paolo Ielo, lo stesso che nella “lunga notte” del 20 dicembre 2016 incontra il pm Henry J. Woodcock presso la caserma romana del Noe, richiede in via ufficiale che la querela testé menzionata venga archiviata: “Il fatto non costituisce reato trattandosi di una forma di manifestazione dell’esercizio della critica che muove dall’oggettivo coinvolgimento di alcuni esponenti del Pd nei procedimenti e nei processi cosiddetti di Mafia capitale, nel contesto di una dialettica politica dai toni aspri e assai esasperati, che ha visto la querelata contrapporsi dialetticamente ad esponenti del Pd”. That’s politics, honey. Stacce, dicono a Roma. Bonifazi però non ci sta: “Virginia Raggi ci ha diffamato. Nulla di personale, io sono garantista sempre. Tuttavia ritengo che chi diffama la comunità del Pd debba pagare: la nostra gente è perbene. Siamo ancora in attesa che Luigi Di Maio rinunci all’immunità parlamentare per tutte le offese a noi rivolte, ho perso il conto”.
In questo implacabile ping-pong, il Pd si oppone alla richiesta di archiviazione per le “dichiarazioni oggettivamente offensive” che, secondo i dem, non sono giustificabili in nome del diritto di critica. Un’argomentazione che il gip Fabio Mostarda deve aver ritenuto non priva di fondamento dal momento che, anziché accogliere sic et simpliciter l’istanza di piazzale Clodio, lo scorso 21 febbraio ha fissato l’udienza per decidere in camera di consiglio, alla presenza delle parti e dell’indagata. Così il prossimo 28 marzo Pd e procura s’incontreranno nell’aula 10, al primo piano del tribunale, per esporre, ciascuno, le proprie ragioni. “Confidiamo nel gip e nella sua serenità di giudizio – conclude Bonifazi – Nel frattempo la Raggi verrà in tribunale e dovrà rispondere di ciò che ha detto. Se vuole, in extremis, il Pd potrebbe accettare le sue scuse pubbliche. Ormai, tra truffatori, scrocconi e riciclati, sono il Movimento degli ex onesti: hanno finito di farci la morale”. Al giudice l’ardua sentenza.