L'ambasciatore innocente che fece sei mesi "preventivi" a Regina Coeli
Venticinque anni fa l'arresto di Claudio Moreno, travolto dalla cultura del sospetto travestita da presunta lotta all'illegalità
Roma. Dagli eleganti corridoi delle diplomazie sparse per il mondo alle celle fetide, sovraffollate e alienanti di un carcere. Sono trascorsi 25 anni dalla caduta negli inferi di Claudio Moreno, ambasciatore di lungo corso, finito agli inizi degli anni ’90 nel vortice della caccia alle streghe avviata dalla stagione di Mani Pulite.
Quando la cultura del sospetto, travestita da presunta lotta all’illegalità, lo travolge, Moreno ha già alle sue spalle una carriera di alto livello: dal 1976 al 1980 ambasciatore in Mozambico (accreditato anche in Swaziland e Lesotho), i cinque anni successivi in Senegal (accreditato anche in Gambia, Mauritania, Capo Verde e Mali), poi in Tunisia e in seguito in Argentina. Moreno è anche amico e a volte consulente a titolo personale di Bettino Craxi per la politica internazionale. Tanto basta, forse, per far scattare la macchina infernale del populismo giudiziario.
Nel marzo del 1993 un magistrato lo convoca come persona informata dei fatti su un’indagine riguardante i programmi di cooperazione allo sviluppo. Moreno rientra prontamente a Roma da Buenos Aires e senza neppure ricevere un avviso di garanzia viene arrestato e trasferito nel carcere di Regina Coeli, dove rimarrà sei mesi. Una storia finita poi bene (le accuse nei suoi confronti si scioglieranno come neve al sole, portando ben 14 anni dopo alla sua assoluzione e consentendogli comunque nel frattempo di ottenere una completa riabilitazione e la nomina a nuovi prestigiosi incarichi, come la presidenza del Comitato per i diritti umani), ma che ha lasciato nella vita del diplomatico segni indelebili, ora da lui stesso raccontati in un libro: “Un ambasciatore a Regina Coeli” (Editori Riuniti).
Il libro ripercorre il viaggio dell’ambasciatore nel girone dantesco del carcere italiano. “Il paradosso della carcerazione – scrive Moreno – vuole che proprio colui che dovrebbe avere la più chiara ed equilibrata idea della durezza del castigo imposto con la detenzione preventiva e cioè il magistrato inquirente ignora per lo più le drammatiche condizioni delle carceri italiane. Questo magistrato non ha forse mai conosciuto in vita sua la sordida condizione di un carcere circondariale, con la sua sporcizia, insalubrità e promiscuità. Con il suo clima di violenza e di disperazione che è la negazione di quello che dovrebbe essere il fine precipuo e principale della pena: la riabilitazione e il recupero sociale e morale del detenuto prescritto dall’articolo 27 della Costituzione”.
Una tortura resa ancor più ingiustificata dal suo utilizzo in via cautelare, quando la persona gettata gettata in carcere è ancora in attesa di giudizio. E non ci si può stupire, scrive ancora Moreno, che “in alcuni casi il magistrato possa apparire di sfruttare cinicamente questa enorme pressione che in ultima analisi è illegale e sproporzionata perché può pregiudicare – in quanto atroce e contraria a ogni concetto di equo castigo – l’equilibrio psicofisico di chi ne sia vittima”.
E’ in questo clima che l’ambasciatore racconta con minuziose descrizioni, valorizzate anche dall’uso del linguaggio carcerario, ogni aspetto della vita quotidiana in un penitenziario. Dall’esperienza degradante dell’isolamento ai conflitti in cella, dagli espedienti messi in atto dai detenuti per compiere le attività più comuni alle “evasioni” rappresentate dal lavoro in carcere o da una partita di calcetto, per finire con le tecniche utilizzate dai detenuti per togliersi la vita (c’è chi si impicca, ma anche chi decide di ingerire cocktail letali a base di pezzi di vetro, lamette e chiodi).
Ed è qui, tra il vomito dei tossici in crisi, le imprecazioni dei nuovi arrivati e gli occhi spiritati di quelli che da tempo soggiornano in cella, che l’animo dell’ambasciatore è colpito da semplici gesti di umana solidarietà espressi dai propri compagni di sventura: “Mi sorprende e mi resterà impressa quella mano tesa con un piatto fumante di spaghetti poco conditi ma al dente che mi viene offerto come benvenuto all’inferno”.