I detenuti sotto osservazione per radicalizzazione sono stati in forte aumento (foto LaPresse)

Come si decide se un detenuto musulmano in Italia è un terrorista o no

Luca Gambardella

Un nuovo studio dice che i radicalizzati nelle carceri del nostro paese sono sempre di più. Ma l'identificazione dei potenziali terroristi islamici troppo spesso è lasciata al caso

Alcuni aspetti del processo di radicalizzazione islamica dei carcerati restano un mistero, spiega al Foglio Claudio Paterniti, ricercatore di Antigone, associazione che proprio oggi ha diffuso i dati aggiornati sulla popolazione carceraria italiana. “Nel 2017 i detenuti sotto osservazione per radicalizzazione sono stati in forte aumento rispetto all’anno precedente: 506 contro 365 del 2016, cioè il 72 per cento in più”. E' il dato preoccupante che emerge dal rapporto dell’associazione, svolto in base ai numeri forniti dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap).

 

Il fenomeno riguarda anche altri paesi europei e tra gli attentatori dello Stato islamico erano molti quelli ad essersi radicalizzati in carcere. E' il caso di Abdelhamid Abaaoud, che quando uscì di prigione nel 2012 diede da subito “i primi segni della radicalizzazione”, come ha raccontato suo padre Omar. Il giovane belga, figlio di immigrati marocchini, viveva a Bruxelles e prima di essere arrestato frequentava una scuola privata di alto livello, il Collège Saint-Pierre d’Uccle. Abdelhamid era finito in prigione per piccoli reati, droga, qualche furto. Ma solo quattro anni dopo il rilascio, il ragazzo ricompare in Siria, dove combatte per lo Stato islamico, col nome di battaglia Abu Omar al Baljiki. Infine, nel novembre 2015, il 28enne diventa la mente del commando che uccide 129 persone a Parigi.

 

Come Abaaoud anche altri attentatori del Califfato, da Salah Abdeslam ad Anis Amri, si sono radicalizzati in cella. L’orientalista e politologo francese Olivier Roy ha provato a dare una spiegazione: “Il carcere amplifica molti dei fattori che alimentano oggi la radicalizzazione – scrive Roy sul Guardian –: la dimensione generazionale, la rivolta contro il sistema, la diffusione di un salafismo semplificato, la formazione di un gruppo coeso, la ricerca di dignità legata al rispetto della norma e la reinterpretazione del crimine legittimato come protesta politica”. E se il numero delle conversioni alla religione islamica in prigione aumentano in tutta Europa, la vera sfida è capire in quali casi l’appartenenza all'islam nasconda il seme dell’integralismo.

 

In Italia la prevenzione e l'identificazione dei potenziali terroristi islamici nelle carceri è lasciata troppo spesso alla sensibilità e alla percezione di chi opera a contatto coi detenuti, piuttosto che a regole organiche. “Chi è sotto osservazione è monitorato con tre livelli di allerta: alto, medio e basso”, spiega Paterniti : “242 sono oggetto di un alto livello di attenzione (il 32 per cento in più rispetto al 2016), 150 di un livello medio (il 100 per cento in più del 2016) e 114 di un livello basso (nel 2016 erano 126)”. A spiegare al personale delle carceri come riconoscere un potenziale terrorista islamico sono le linee guida di un gruppo di lavoro della Commissione europea e un manuale pubblicato dalle Nazioni Unite. Nei documenti si incoraggia a tenere sotto osservazione sia l’aspetto fisico del detenuto (se si faccia crescere la barba o no, per esempio) sia i suoi comportamenti (quante volte prega, eventuali fenomeno di violenza nei confronti delle guardie carcerarie). “Ma se e quanto questi elementi siano sufficienti per decidere se un musulmano è un terrorista oppure no resta poco chiaro. L'unica strategia applicata dal Dap è quella della separazione dei detenuti radicalizzati, e di quelli a rischio radicalizzazione, dagli altri. Per il resto non esiste un approccio coerente a livello nazionale”, dice Paterniti. “Oggi in Italia ci sono 62 reclusi in regime di alta sicurezza per reati connessi al terrorismo, ma solo 4 sono stati condannati in via definitiva. Molti di questi finiscono nelle stesse sezioni penitenziarie e il rischio che i veri radicalizzati possano influenzare quelli presunti è elevato”. Inoltre, il 42 per cento dei carcerati che provengono da paesi a maggioranza musulmana non dichiara la propria confessione religiosa: questo avviene – spiega Antigone – soprattutto per il timore di discriminazioni in carcere, ma il sospetto del Dap è che così facendo alcuni di quesi provino a sottrarsi al piano di contrasto alla radicalizzazione.

 

Le difficoltà nella gestione di questi detenuti “speciali” non riguardano solo l'Italia, ma sono analoghe a quelle affrontate nelle carceri di Francia, Belgio e Regno Unito. Ma a differenza di questi paesi, l'Italia resta ancora più indietro. Per provare a risolvere i problemi del sovraffollamento delle carceri e della scarsa formazione del personale, lo scorso anno la Camera aveva approvato una proposta di legge che però si è arenata al Senato. Secondo i dati del Dap, nel 2017 sono stati solo 10 i componenti del personale penitenziario che hanno seguito corsi di lingua araba, mentre continuano a mancare interpreti e mediatori culturali. Un passo avanti era stato compiuto col Protocollo di intesa siglato nel 2015 tra il ministero della Giustizia, il Dap e l’Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia (Ucoii). Il protocollo prevedeva l’accesso di imam accreditati negli istituti di pena per permettere che i detenuti di fede musulmana potessero contare su un’assistenza religiosa ufficiale e controllata. Ma oggi sono solo 8 gli imam dell’Ucoii coinvolti dal programma in tutta Italia, lasciando campo libero al proselitismo degli “imam fai da te” in carcere.

  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare "Morosini". Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.