Macerie d'antimafia
Catalogo dei beni sequestrati che la mala amministrazione dello stato ha inesorabilmente distrutto. Nove patrimoni su dieci in rovina
Quello di Francesco Lena è l’ultimo caso che inchioda la giustizia alle proprie responsabilità. L’imprenditore Lena e i suoi figli erano stati messi alla porta della loro azienda vitivinicola, l’Abbazia Santa Anastasia, in provincia di Palermo. Pochi giorni fa la sezione misure di prevenzione del Tribunale gli ha restituito il patrimonio, sette anni e mezzo dopo il sequestro. Troppo tempo per uno stato che si definisce di diritto.
Lena era stato arrestato, imputato e assolto nel processo penale dall’accusa di essere un prestanome di Bernardo Provenzano. Nel frattempo si era attivato il doppio binario delle misure di prevenzione, dove basta il fumus della colpevolezza per fare scattare il sequestro. Il sospetto di mafiosità si è diradato e sono rimaste solo ombre contabili che con la mafia, però, nulla c’entrano.
Arrestato, imputato e assolto dall’accusa di essere un prestanome di Provenzano. Il patrimonio restituito sette anni dopo il sequestro
In Italia ci si muove come se nulla sia accaduto. Come se lo scandalo misure di prevenzione scoppiato a Palermo non abbia spazzato via una stagione giudiziaria. Come se le macerie dei beni confiscati ai boss e agli imprenditori accusati di essere in combutta con la mafia si possano nascondere sotto il tappeto. E invece stanno lì a dimostrare che il sistema non ha funzionato. Quel sistema che adesso si pretende di estendere ai reati di corruzione.
Manettari, forcaioli e giustizieri non vedono l’ora che i corrotti siano trattati al pari dei mafiosi e guardano con fiducia al nuovo che avanza in politica, speranzosi che la giustizia si faccia severissima. Poche settimane fa, al festival Sum#02 di Ivrea, la Leopolda grillina organizzata da Davide Casaleggio, il pubblico si è spellato le mani per applaudire l’idea di giustizia proposta dal sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia Antonino Di Matteo. Gli indagati per mafia e per corruzione vanno trattati alla stessa maniera.
L’indagine dei finanzieri del Nucleo di polizia economico-finanziaria nel 2015 hanno scoperchiarono un pentolone maleodorante. Silvana Saguto, potente ex presidente della Misure di prevenzione radiata della magistratura, avrà tempo e modo di difendersi al processo in corso a Caltanissetta. Di sicuro, tenendo bene a mente le intercettazioni che per mesi hanno riempito le pagine dei giornali, resta l’immagine di una giustizia piegata agli interessi personali di una combriccola di amministratori giudiziari e consulenti che avrebbero trasformato le misure di prevenzione in un terreno di caccia.
Tutti chiusi, falliti, i negozi dei Niceta, e i dipendenti licenziati. Un pannicello caldo il fondo di garanzia previsto dalle nuove norme
L’emergenza provocata dall’inchiesta dei pubblici ministeri di Caltanissetta, con i finanzieri autorizzati a perquisire gli uffici giudiziari palermitani, ha imposto un’accelerazione all’approvazione del nuovo codice antimafia. Ed ecco spuntare la “norma Saguto”, un emendamento del governo che impedisce la nomina ad amministratore giudiziario, coadiutore o collaboratore non solo ai parenti ma anche ai “conviventi e commensali abituali” del magistrato che conferisce l’incarico. Ce li immaginiamo gli ispettori, o chi per loro, a seguire i magistrati per scoprire con chi stanno mangiando una pizza.
Si ha l’impressione, purtroppo non positiva, che la vicenda Saguto rappresenti un’occasione persa per affrontare, una volta per tutte, il tema centrale delle misure di prevenzione, e cioè la dilatazione dei tempi dei procedimenti e la conservazione dei patrimoni. Sono quasi 20 mila i beni confiscati alle mafie a cui si aggiungono 3.000 aziende. Altri 20 mila i beni confiscati (tra terreni, aziende e immobili) con procedimenti di natura penale. Immenso il valore, quasi 30 miliardi. Oltre il 90 per cento, però, fallisce. La percentuale non lascia spazio al dibattito: il sistema va aggiornato.
Nel settembre del 1982 arriva la svolta della legge Rognoni-La Torre. Accanto alle misure di prevenzione personali – ad esempio la sorveglianza speciale – vengono introdotte quelle di carattere patrimoniale, e cioè il sequestro e la confisca dei beni. L’obiettivo è togliere la forza economica ai clan. Nel mirino finisce la cosiddetta imprenditoria mafiosa, senza contare che spesso le figure di boss e imprenditore coincidono. Presupposto della misura di prevenzione patrimoniale è la pericolosità sociale del soggetto. Il paletto decisivo lo pianta la Corte costituzionale, la quale stabilisce che non serve “la prova di un reato di cui il soggetto è ritenuto responsabile, bensì il riconoscimento sulla base di indizi di una pericolosità sociale particolarmente qualificata, intesa come probabilità di commissione di ulteriori reati”. Bastano cioè gli indizi di appartenenza all’associazione criminale.
Nel 2008, una nuova tappa. Fino ad allora una misura di prevenzione patrimoniale era subordinata all’applicazione di quella personale. Bisognava cioè dimostrare l’attualità della pericolosità di chi era accusato di appartenere a un’associazione mafiosa. Il sistema mostrò due limiti: l’impossibilità, in caso di morte del soggetto sottoposto a misura di prevenzione, di proseguire il procedimento nei confronti degli eredi e lo stop del procedimento qualora fosse venuta meno l’attualità della pericolosità sociale. E così si decise di svincolare le misure di prevenzione personali da quelle patrimoniali. Da qui il doppio binario che si è spesso registrato in questi anni. Le prove possono non bastare per condannare una persona al carcere, ma risultare sufficienti per colpirne il patrimonio.
Il sistema non ha funzionato. Ma Antonino Di Matteo davanti ai grillini a Ivrea ha proposto di estenderlo ai reati di corruzione
Di recente si è assistito, su input delle sezioni unite della Cassazione, a un’inversione di tendenza sul tema dell’attualità della pericolosità sociale. Nel frattempo i Radicali hanno suonato il campanello di allarme: con il sistema delle misure di prevenzione così pensato la lotta alla mafia ha azzerato lo stato di diritto. Non vale più il principio di non colpevolezza, ma si parte dalla presunzione di colpevolezza. Si inverte l’onere della prova. E’ il proposto a dovere dimostrare che il suo patrimonio è lecito. Le immagini dei beni che vanno in rovina sembrano rafforzare l’idea di uno stato che bada solo a punire e distruggere. E invece esiste un punto di equilibrio. Ne è convinto Andrea Dell’Aira, uno degli avvocati di Lena: “Non si deve indebolire, ma rafforzare la lotta alla mafia. Ci vogliono regole del diritto logiche e comprensibili per il cittadino. La Rognoni-La Torre arrivò quando della mafia si conosceva poco. Quarant’anni dopo è ingiustificato che ci si muova ancora seguendo un logica emergenziale”.
Si mantenga pure la rigidità dell’inversione dell’onere della prova, ma almeno si crei uno step per evitare di scoprire gli errori dopo anni e a pastrocchio avvenuto. Come? “Seguendo l’esempio del sequestro penale – aggiunge Dell’Aira – dove c’è la possibilità di ricorrere al Tribunale del riesame e in Cassazione. Ci vuole una garanzia effettiva di difesa”.
Forse in questa maniera si sarebbe evitato il caso Lena che, almeno così pare, non riavrà la stessa azienda che aveva lasciato, ma almeno la ritroverà. Ci sono casi, invece, di distruzione. I fratelli Niceta, ad esempio, per i quali il processo è ancora pendente, qualora ottenessero il dissequestro, non ritroverebbero alcuno dei loro quindici negozi di abbigliamento fra Palermo e Trapani. Tutti chiusi, falliti, e i dipendenti licenziati. Gli imprenditori se la prendono con gli amministratori giudiziari. Che, però, non sempre e non da soli sono i responsabili. Subentrare in un’azienda significa spesso trovarsi di fronte al marasma contabile, a una forza lavoro in nero, al mancato rispetto delle elementari norme di sicurezza, alle pressioni dei mafiosi che non hanno alcuna intenzione di cedere il passo, all’obbligo di misurarsi nel mercato, sempre che non sia inquinato, senza le dovute competenze e con l’impossibilità di accedere al credito. Lo stato non è un buon socio per le banche che preferiscono girarne alla larga. Ottenere una fideiussione per partecipare a un appalto diventa un’operazione quasi impossibile. Con le nuove norme le aziende sequestrate per cercare di restare a galla potranno contare su una decina milioni di euro. Fondi di garanzia che agli addetti ai lavori sanno di pannicello caldo. Sono ben altre le risorse che servirebbero.
Il valore dei beni confiscati alle mafie e con procedimenti di natura penale è di quasi 30 miliardi. Oltre il 90 per cento, però, fallisce
In ogni caso non si affronta il tema centrale: i beni dei Niceta e di tanti altri imprenditori sono sotto sequestro da cinque anni. E dire che il procedimento di primo grado dovrebbe finire entro un anno e mezzo. Utopia, sia quando c’era Saguto sia ora che è iniziato il nuovo corso che si è lasciato alle spalle i vecchi guasti delle misure di prevenzione. I tempi restano lunghi, appesantiti da perizie infinite.
“Il vecchio come il nuovo codice – spiega Dell’Aira – non prevede sanzioni nel caso si violi il termine. I sequestri non perdono efficacia”. No sanzione, no accelerazione. Circostanza prevedibile in un paese dove qualcuno pensa di rendere infiniti i termini di prescrizione dei processi penali, dove un terzo dei magistrati è onorario e non togato, assunto dieci anni fa sulla base, guarda un po’, dell’emergenza giustizia, dove manca persino la carta per stampare e la riforma del settore, quella vera, resta un vessillo da campagna elettorale.
Finirà (in realtà è già accaduto, ma è meglio sussurrarlo onde evitare la reazione dei benpensanti) che si dirà che era meglio quando si stava peggio. Che la mafia porta lavoro e lo stato il lavoro lo distrugge. Ancora una volta la cronaca offre lo spunto. Ed è una cronaca del disfacimento. A Carini, grosso centro alle porte di Palermo, c’è un centro commerciale confiscato a un imprenditore che sarebbe rimasto nell’ombra a gestire l’attività con la complicità dell’amministratore giudiziario. Sono finiti tutti e due sotto inchiesta. Nel frattempo dei venti negozi del centro Portobello ne sono rimasti aperti solo quattro, la cui sorte appare segnata. A meno che non si dia seguito al progetto che l’ex direttore, colui che denunciò l’ingerenza del vecchio proprietario, ha messo nero su bianco coinvolgendo una dozzina di imprenditori pronti a investire. Il progetto è stato inviato due mesi fa all’Agenzia nazionale per i beni confiscati alla mafia che si muove con la velocità di un ministero, nonostante gli annunci vani di potenziarne l’operatività con nuove risorse.