Giustizia e antimafia: custodia cautelare o somma cautela?
La caduta di Montante, Saguto, Ingroia e Crocetta, miti della legalità
La prima domanda è questa: che cosa resta dell’antimafia, di quel movimento che avrebbe dovuto scuotere le coscienze dei siciliani e spezzare finalmente quella cappa di violenza con la quale boss e malandrini soffocano la vita di un’intera comunità? La risposta è a dir poco disarmante: restano solo macerie. Si è sgretolato Antonello Montante, che da presidente di Confindustria si era intestato la “rivoluzione della legalità” con la quale ogni imprenditore avrebbe dovuto scrollarsi di dosso il giogo opprimente di Cosa nostra: lo hanno arrestato ieri con l’accusa di avere messo su, con la complicità di alcuni funzionari dello stato, una rete di spionaggio per condizionare il lavoro della magistratura, colpire i nemici e favorire gli amici. E’ affogata nella palude degli scandali anche Silvana Saguto, giudice per le misure di prevenzione, che avrebbe dovuto sequestrare e ripulire i patrimoni accumulati dalla mafia e che nella totale indifferenza dei suoi colleghi magistrati ha messo su invece una centrale di corruzione dove avvocaticchi, commercialisti e affaristi si impadronivano dei beni sequestrati ai boss e ne facevano strumento di illecito arricchimento. Ed è finito nei guai giudiziari persino Antonio Ingroia, che da procuratore aggiunto imbastì il mastodontico processo sulla Trattativa e fu glorificato a tal punto da giornali e talk-show che credette di potere tentare, nel 2013, la scalata di Palazzo Chigi. Ma fu sonoramente trombato e per leccarsi le ferite di una ambiziosa quanto disastrosa campagna elettorale trovò riparo in un posto di sottogoverno messogli a disposizione dal suo fraternissimo amico Rosario Crocetta, allora governatore della Sicilia. Poteva starsene lì buono buono, a fare i conti del dare e dell’avere; cosa che per una partecipata della Regione sarebbe stata una grande fortuna. Invece preferì la bella vita, viaggi e alberghi di lusso, e ora è sotto inchiesta per peculato.
La seconda domanda è questa: ci sarà ancora qualcuno in grado di sostenere che la politica siciliana è condizionata dalla mafia o, peggio, che esiste un tavolo ovale dove boss e rappresentanti dei partiti programmano affari e corruzioni per spartirsi con la violenza potere e miliardi? La risposta è destinata a deludere soprattutto quegli opinionisti – tutti autorevoli, per carità – che da trent’anni a questa parte hanno spacciato l’idea, truffalda ed emergenziale, di una mafia invincibile. Perché da quando lo Stato ha seppellito nel carcere duro i corleonesi delle stragi, da Totò Riina a Leoluca Bagarella, sul territorio è rimasta – a parte l’inafferrabile Matteo Messina Denaro – una mafia minuta, frastagliata, rissosa e per molti versi anche stracciona che per vent’anni non è riuscita nemmeno a ricostituire la cupola del comando supremo. E se si pensa che gli ultimi boss rimbalzati sulle cronache sono stati un tale Lo Piccolo o un tale Nicchi, picciottazzi di seconda o terza fila e comunque già rinchiusi nelle patrie galere, forse sarebbe il caso di ammettere che a condizionare la politica in Sicilia, almeno nell’ultimo quarto di secolo, non è stata tanto la mafia quanto l’antimafia di Antonello Montante, di Silvana Saguto, di Antonio Igroia e di Giuseppe Lumia meglio conosciuto, al tempo di Crocetta governatore, come “il senatore della porta accanto”. Quell’antimafia spregiudicata che sotto gli occhi abbagliati o distratti della cosiddetta società civile è riuscita a trasformarsi in un ferragno blocco di potere e che in nome della “legalità”, sbandierata come una spada di fuoco pronta a colpire nemici e avversari, ha finito per amministrare affari leciti e illeciti, nomine e detronizzazioni, cordate e consorterie.
Con la complicità – anzi, con il compiacimento – degli ultimi presidenti della Regione da Totò Cuffaro a Raffaele Lombardo a Rosario Crocetta, che da quella antimafia hanno accettato non solo gli uomini, molti dei quali inseriti come assessori nelle giunte di governo, ma ogni sorta di suggerimento, di sollecito, di proposta per un decreto, per un’ordinanza, per un disegno di legge. E non è certamente un caso che proprio ieri la procura di Caltanissetta abbia deciso di indagare nell’ambito dell’inchiesta su Montante, anche Crocetta e due ex assessori della sua giunta.
Terza domanda: e nei lunghi dieci anni dell’antimafia al potere dov’è stata la santissima e salvifica magistratura, quella così tanto invocata in questa stagione di smarrimento e di confusione politica? Qui la risposta si fa un poco complicata. Ma cerchiamo di procedere con ordine. Di fronte a un paladino della legalità come Antonello Montante, che predicava la rivolta degli imprenditori onesti contro lo strapotere sanguinario di Cosa nostra, era obiettivamente difficile soprattutto per un magistrato non dare credito a quella “primavera della legalità” che dal palazzo della Confindustria sembrava espandersi a tutte le altre associazioni di categoria, dai commercianti agli artigiani. E infatti Montante si è trovato accanto non pochi magistrati, oltre a tantissimi poliziotti, questori, prefetti. Un’intesa pressocchè naturale che nel corso degli anni ha spinto molte di quelle toghe altolocate a stabilire con il presidente degli industriali un rapporto così confidenziale da spingerli a chiedere persino alcuni favori, come un posto di lavoro per la moglie o, addirittura, una raccomandazione al Consiglio superiore della magistratura per facilitare una nomina o una promozione. Montante acconsentiva e annotava; e oggi quei rapporti sono finiti nel pentolone dell’inchiesta, ma senza clamore: i nomi dei magistrati coinvolti, si legge nell’ordinanza del gip che ha firmato l’ordine di custodia cautelare per Montante, saranno segnalati “per il di più a praticarsi” alle procure di riferimento e all’organo disciplinare del Csm. Ma c’è un dettaglio: che la procura di Catania, competente per gli eventuali reati commessi dai magistrati di Caltanissetta, ha esaminato il fascicolo relativo agli amici dell’ex presidente di Sicindustria e ha deciso già l’anno scorso per l’archiviazione.
Il fascicolo con gli atti relativi era stato spedito ai colleghi catanesi da Lia Sava che da procuratore aggiunto ha retto l’ufficio di Caltanissetta fino al 26 luglio del 2016, giorno in cui si è insediato il nuovo procuratore Amedeo Bertone. Una reggenza, quella di Lia Sava, che si è rivelata sin troppo impegnativa. Perché nel giro di pochi mesi dentro quel Palazzo di giustizia sono deflagrate due inchieste – quella sulla Saguto e quella su Montante – che hanno posto Lia Sava di fronte a scelte non facili. Sia nell’una che nell’altra inchiesta c’erano implicati grappoli di magistrati. A Silvana Saguto, in particolare, venivano contestati i reati di associazione per delinquere, peculato aggravato, corruzione aggravata, abuso di ufficio fino al falso ideologico. Lia Sava poteva arrestarla e consegnare lo scalpo agli sghignazzi di tutti quei mafiosi che si erano visti “depredati” delle proprie maleodoranti ricchezze. Poteva arrestarla e scoperchiare di colpo il verminaio delle complicità, delle coperture, delle connivenze dentro e fuori il palazzo di giustizia di Palermo. Invece ha scelto la via della cautela: ha fatto le doverose perquisizioni, i doverosi interrogatori, le doverose segnalazioni ma senza l’atto traumatico dell’ordine di cattura, degli agenti che vengono a prelevarti, dell’inchiostro per le impronte digitali, delle foto segnaletiche. Tutte cose toccate invece l’altro ieri a Montante.
Nei confronti di Silvana Saguto è stato adottato un garantismo forse estremo ma comunque apprezzabile. Talmente apprezzato che il Consiglio superiore della magistratura il 9 maggio scorso ha deciso di promuovere Lia Sava e di assegnarle il posto di procuratore generale. Sarà la prima donna a ricoprire quell’incarico. Sostituirà Sergio Lari, precipitato tre anni fa nella botola delle carte roventi custodite da Montante.