Così il populismo ha cancellato il valore della parola giustizia
Di tutti i poteri è il più fragile e il più spaventoso. Da bene collettivo e pacifico, principio fondante di ogni comunità civile progredita, si muta rapidamente in gogna, vendetta, purificazione
In quello straordinario film-documentario sulla crisi degli anni ’70 che è “Prova d’orchestra”, Fellini fa dire ad uno dei musicanti chiusi a litigare in una stanza d’oratorio i cui muri vengono demoliti a colpi di caterpillar: “Dove va la musica quando noi finiamo di suonare?”. Ecco la domanda che oggi, nella crisi di passaggio verso la terza Repubblica, viene da porsi: “Dove vanno le parole quando noi abbiamo finito di pronunciarle?”. Si direbbe che oramai il parlare della politica non è più l’esercizio di una virtù pubblica ma una attività ginnica. Fra parola scritta e parola detta non vi è più alcuna differenza, entrambe si fanno volatili e reversibili. Entrambe rimuovono il senso anziché fondarlo. Sia l’una che l’altra assumono le fattezze di un sintomo narcisista, attività che servono solo ad esorcizzare il mondo, a tenerlo lontano dall’onta del pensiero, dai vezzi della ragione.
Futili e veloci, taglienti e demolitrici, le parole vengono prodotte e assunte in dosi sempre maggiori per vincere il limite dell’assuefazione. Sono inebrianti come il loto. Dopo che l’hanno assaggiato è dura per i marinai di Ulisse tornare alla fatica dei remi. Tornare alla tessitura del pensiero, alla complessità dei nessi, alla sempre più ardua decifrazione della realtà quotidiana, alle sfide che l’eclissi della ragione ha lasciato aperte.
Il mondo della giustizia è il primo a cadere sotto i colpi di questa destrutturazione della parola che si dà modestamente il nome di “populismo”, ma che attinge alle più evolute e sofisticate strategie del futuro governalismo tecnologico. La parola che non vale più niente, non solo apre infatti spazi enormi all’onda repressiva e autoritaria del potere, ma la fa apparire una risorsa, un bene collettivo. Il cittadino di questo nuovo stato ringrazia i governanti di averlo promosso a suddito plaudente.
La giustizia cade per prima perché di tutti i poteri è il più fragile e il più spaventoso. Da bene collettivo e pacifico, principio fondante di ogni comunità civile progredita, si muta rapidamente in gogna, vendetta, purificazione, spettacolo osceno da tricoteuses 4.0. Come tutti i valori fragili l’idea stessa di giustizia risulta strumento formidabile, e a costo zero, per proiettare sull’altro ogni senso di colpa di una società incapace di indagare i propri limiti e la propria incultura.
Il male per questo tipo di giustizia è sempre un “altrove”, un nemico da esorcizzare a colpi di certezza della pena, di giustizialismo, di emenda, di espiazione, di pene esemplari, di caccia al corrotto, di reati imprescrittibili per stanare il male, da qui all’eternità. Dire che il giustizialismo è cosa buona – come ha affermato Piercamillo Davigo - perché c’è dentro la parola “giustizia” significa giocare con le parole: anche nel nazionalsocialismo c’era la parola socialismo. S’è visto poi cosa fosse. L’impegno del pensiero pretende analisi più serie che facciano i conti con i nessi irrisolti della nostra democrazia che con la giustizia ha sempre avuto un miserrimo rapporto strumentale: clava da agitare contro l’avversario politico e contro il vicino di casa, mostro tentacolare quando se ne è disgraziatamente vittima. Chi in questi anni ha taciuto questa semplice verità oggi sembra schizzinosamente prendere la distanza dai vagheggiamento autoritario di questo nuovo “contratto sociale” che rivaluta il mito del “buon selvaggio”. Sebbene dovrebbe dirsi legittimato a tali giudizi solo chi ha praticato in questi anni l’autentico garantismo, difendendo dai soprusi allo stesso modo gli ultimi e i potenti, gli amici e i nemici, senza chiesa e senza partito, fra le alzate di spalle dei più e i sorrisetti di commiserazione, sono tutti i benvenuti. Insieme ai padri fondatori, ai democratici e ai liberali, a Turati e ai socialisti libertari, con Tortora e con Pannella. Questo programma sulla giustizia odora un poco di zolfo, ma non fa nulla, il ministro avvocato garantisce con la sua “storia personale”, assieme al capo del governo, a sua volta soi-disant “avvocato del popolo”. Le parole, scritte o alate che siano, non significano oramai più niente. Non costruiscono più né visioni né futuro. Mentre intanto, per restare nella metafora felliniana, i tribunali vengono giù a pezzi.
*Francesco Petrelli è segretario delle Camere Penali