Il “whatever it takes” del giustizialismo al Csm è lo specchio del paese
Il trionfo di Davigo e un lungo mutamento culturale
Milano. Paolo Colonnello, veterano della cronaca giudiziaria dai tempi di Mani pulite, ha scritto sulla Stampa che l’elezione dei membri togati del nuovo Csm, con la “vittoria personale” di Piercamillo Davigo (ma le liste non sono andate bene), “ridisegna la geografia delle toghe italiane nei confini del nuovo potere grillo-leghista”. Forse è un’evidenza, ma forse è una semplificazione. Certo i magistrati italiani non sono sospettabili di essersi espressi – provocando un maremoto in quel luogo di solito quieto come uno stagno – avendo in mente che è cambiato il governo. Ma poiché i 2.522 voti incassati da Davigo alla guida del suo nuovo gruppo Autonomia e indipendenza sono un dato trionfale, meglio pensare che a sospingerlo ci sia stata un’onda lunga. Un’onda che spinge anche al di fuori del mondo delle toghe. Ipotesi: il nuovo Csm, più che rapportarsi con il nuovo potere politico, è uno specchio del paese che l’ha prodotto. Innanzitutto, un occhio a chi tracolla: la corrente centrista Unicost e la corrente di sinistra Area (somma di Magistratura democratica e Movimento per la giustizia) non hanno eletto nemmeno un candidato di Cassazione, e gli addetti ai lavori ritengono che il successo di Davigo nasca anche da uno slittamento dei voti da Area verso Autonomia e indipendenza. Per usare i toni volgari del discorso politico, e non quelli felpati dei magistrati: un tracollo a sinistra con uno spostamento verso il populismo cinque stelle.
Un successo personale è un successo personale, negare che Davigo sia il CR7 dei magistrati, e che così venga percepito dai colleghi, sarebbe assurdo. Anche se non significa che tutti i magistrati la pensino esattamente come lui. Ma c’è questo. Un ceto professionale formatosi in ormai 25 anni dalla svolta di Mani pulite – un giovane che entrava nei ranghi allora è oggi nel pieno della carriera, chi già c’era è oggi nelle posizioni apicali – ha vissuto in un clima che a poco a poco ha emarginato il vecchio sinistrismo (la magistratura interpretata come una sorta di anti-potere attivo) passando a una visione che, si prenda il termine in senso figurato, è una sorta di sostanzialismo giudiziario. Il “whatever it takes” applicato a Davigo: l’unica cosa che conta è sorvegliare e punire.
Lo strapotere mediatico e ideologico di Md, quando le toghe rosse celebravano le “controinaugurazioni dell’anno giudiziario” è finito da tempo. L’ideologia post Tangentopoli – di cui Davigo è stato il vero pensatore, o il vero elaboratore ex post dei brocardi migliori – ha prodotto una nuova concezione ora maggioritaria, pare, al Csm. Il sostanzialismo giudiziario: non importa che il pm sia rosso o nero, l’importante è che acchiappi il corrotto. E’ la mentalità prevalente nella magistratura che si occupa di reati che riguardano la corruzione e la pubblica amministrazione. La cosiddetta criminalità dei colletti bianchi: il terreno di cui Davigo è principe e, come ha scritto Massimo Bordin, sarà la vera materia del contendere del nuovo Csm: “L’allargamento della legislazione antimafia al reato di corruzione e all’inserimento di questo tipo di reato, ‘politico” per eccellenza all’interno di un collaudato meccanismo emergenziale saldamente in mano alla magistratura”.
Ma bisogna guardare anche fuori dai palazzi di giustizia, e accorgersi che in questi 25 anni anche il giustizialismo “non togato”, cioè tra i normali cittadini, è cambiato. Quello che fu uno strumento politico – abbatti il partito avversario per via giudiziaria – oggi è semplicemente populismo giudiziario e penale: non importa se è rosso o nero, sono tutti corrotti. E’ su questa visione che si salda il voto a cinque stelle con il programma di governo del ministro Bonafede, dettato da Davigo. E non è difficile notare l’analogia tra il voto popolare cinque stelle e quello dei magistrati per Davigo. Il Csm è lo specchio del paese.