La Consulta conferma il divieto per i magistrati di iscriversi ai partiti. Che fa Emiliano?
La necessità di un intervento legislativo del Parlamento per limitare il via-vai delle toghe in politica, a tutela dei principi di imparzialità e indipendenza della magistratura
Roma. La Corte costituzionale si è espressa venerdì scorso, con la sentenza n. 170, sulla questione di legittimità sollevata dal Consiglio superiore della magistratura sulle norme che vietano l’iscrizione e la partecipazione sistematica e continuativa dei magistrati ai partiti politici. La richiesta era stata avanzata nell’ambito del procedimento disciplinare a cui è sottoposto dinnanzi al Csm il governatore della Puglia, Michele Emiliano, magistrato che negli ultimi 14 anni ha ricoperto innumerevoli incarichi elettivi e ruoli dirigenziali nel Partito democratico (giungendo persino a candidarsi alla segreteria nazionale).
Nella sentenza i giudici costituzionali hanno affermato che il divieto di iscrizione dei magistrati ai partiti politici (stabilito dal decreto legislativo 109 del 2006) è legittimo. La Consulta, da un lato, ha stabilito che i magistrati possono candidarsi a ricoprire cariche politiche ed essere eletti (essendo questo un diritto costituzionale fondamentale che va garantito a tutti i cittadini) ma, dall’altro lato, ha ribadito che è legittimo prevedere sanzioni disciplinari nei confronti delle toghe che si iscrivono a partiti o partecipano in maniera sistematica e continuativa alla loro attività, poiché “va preservato il significato dei princìpi di indipendenza e imparzialità, nonché della loro apparenza, quali requisiti essenziali che caratterizzano la figura del magistrato in ogni aspetto della sua vita pubblica” (tanto più – ha notato la Corte – in un “contesto normativo che consente al magistrato di tornare alla giurisdizione, in caso di mancata elezione oppure al termine del mandato elettivo”).
I giudici costituzionali si sono detti consapevoli del fatto che la rappresentanza politica, secondo quanto previsto dalla stessa Costituzione, si realizza proprio attraverso il sistema dei partiti e che nessun cittadino, nemmeno il cittadino-magistrato, si candida “da solo”, dato che la candidatura presuppone necessariamente un collegamento con i partiti politici. Tuttavia, ciò non rende automaticamente lecito per il magistrato iscriversi a un partito o partecipare stabilmente alla sua attività: “Come del resto qualunque cittadino – hanno sentenziato i giudici – anche (e a maggior ragione) il magistrato ben può, ad esempio, svolgere una campagna elettorale o compiere atti tipici del suo mandato o incarico politico senza necessariamente assumere, al contempo, tutti quei vincoli (a partire dallo stabile schieramento che l’iscrizione testimonia) che normalmente discendono dalla partecipazione organica alla vita di un partito politico”. Spetta al Csm decidere, di fronte al caso specifico, di volta in volta, se i confini tra la partecipazione alla vita politica e quella alla vita di partito sono stati superati dal magistrato.
I legali di Emiliano hanno commentato positivamente la sentenza affermando che questa si sarebbe spinta a stabilire il principio per il quale “la vita di partito può appartenere anche ai magistrati, purché sia ragionevolmente proporzionale al ruolo istituzionale politico che il magistrato ricopre”. In realtà, i giudici costituzionali sembrano piuttosto aver stabilito che la vicinanza di un magistrato a un partito (necessaria per candidarsi) non deve mai trasformarsi in una sua partecipazione sistematica alla vita del partito stesso. Cosa che invece sembra essere accaduta nel caso di Emiliano, che durante il suo mandato prima di sindaco di Bari (dal 2004 al 2014) e poi di presidente della regione Puglia (dal 2015) ha anche ricoperto gli incarichi di segretario regionale e presidente regionale del Pd in Puglia, per poi candidarsi nel 2017 anche alle primarie per l’elezione del segretario nazionale del partito.
Di fronte a questo curriculum, quindi, è probabile che il Csm, che ora riprenderà il procedimento a carico di Emiliano, possa decidere di sanzionare il magistrato-governatore con un provvedimento leggero (come l’ammonimento o la censura) o un atto più severo (come la perdita dell’anzianità, che paradossalmente Emiliano sta continuando a maturare, o la sospensione dalle funzioni).
Quale che sarà l’esito del procedimento disciplinare, il caso Emiliano (e la stessa pronuncia della Consulta) ci ricordano ancora una volta come sia necessario un intervento legislativo del Parlamento per limitare il via-vai delle toghe in politica, a tutela dei principi di imparzialità e indipendenza della magistratura.
Nel 2014, durante la scorsa legislatura, il Senato era riuscito ad approvare un disegno di legge che riformava in maniera incisiva le norme sulla candidabilità, eleggibilità e ricollocamento dei magistrati. Il testo passò poi alla Camera, dove rimase fermo per tre anni in commissione Giustizia, presieduta da Donatella Ferranti, magistrato eletto nelle liste del Pd ed emblema del vulnus rappresentato dalle porte girevoli tra aule di giustizia e politica (dopo dieci anni in politica, lo scorso marzo Ferranti è tornata in magistratura, per indossare la toga di giudice supremo di Cassazione). Dopo un lungo travaglio, la riforma venne approvata anche dalla Camera ma con contenuti totalmente stravolti – e “annacquati” – rispetto al testo originario. La fine della legislatura, ad ogni modo, ha impedito l’approvazione definitiva del ddl.
Di recente, a prospettare un intervento di riforma è stato incredibilmente il neoministro della Giustizia, il grillino Alfonso Bonafede. In ossequio al credo giustizialista del Movimento 5 stelle, in Bonafede non si è sopita la convinzione che la magistratura debba svolgere un ruolo di supplenza nei confronti della politica (“Un magistrato ha un bagaglio di esperienza e competenza molto importante che può decidere, dedicandosi alla politica, di mettere al servizio della collettività”, ha scandito il Guardasigilli durante la seduta straordinaria al plenum del Csm un mese fa), ma è perlomeno balzata alla sua mente l’idea che far rientrare, dopo un’esperienza politica, un magistrato nel proprio ruolo non sia proprio il massimo del rispetto dei principi costituzionali. Così, Bonafede ha annunciato che la maggioranza di governo intende “impedire, per legge, che un magistrato che abbia svolto incarichi politici elettivi possa tornare a svolgere il ruolo di magistrato requirente o giudicante”, e questo perché “l’assunzione di un ruolo politico compromette irrimediabilmente la sua immagine di giudice terzo”.
Il governo gialloverde, dunque, potrebbe decidere di intervenire quantomeno per disciplinare (limitare) la via di ritorno dei magistrati-politici nelle aule di giustizia. Tanto più se si pensa che in favore della riforma si è espresso recentemente anche l’ex pm di Mani pulite, da poco eletto consigliere in Csm, Piercamillo Davigo, che sulla questione è drastico: “I magistrati non dovrebbero fare politica. Non per legge, ma per una scelta etica personale”. Bene, benissimo. Anche se dimentica, Davigo, che l’etica dovrebbe imporre ai magistrati anche di non sconfinare i propri ambiti intervenendo continuamente nel dibattito pubblico e giudicando nel merito le iniziative della politica. Ma questa è un’altra storia.