La Giustizia sfregiata da Bonafede & Co
Utilizzare il diritto penale come uno strumento contro i nemici sociali è una tentazione ricorrente. Legittima difesa e carcere. Contro lo tsunami della demagogia giudiziaria
Esiste un vero e proprio programma gialloverde in materia di giustizia penale? Un programma basato su idee chiare, coerenti e ben definite? Stando alle cronache, non sembrerebbe in effetti di poter registrare significative novità rispetto a quanto si legge nel cosiddetto contratto di governo, dove sono abbozzate proposte alquanto generiche e vaghe, accomunate però da qualcosa di simile a un collante ideologico: cioè una ispirazione di fondo populistico-repressiva che – ove effettivamente perseguita sul piano legislativo – finirebbe col travolgere i fondamenti di un diritto penale di ancora riconoscibile marca liberale.
Prima di guardare a singoli temi, è il caso di soffermarsi proprio su questa ispirazione di fondo – che a dire il vero seguita ad emergere, anche implicitamente, dagli interventi e dalle interviste di esponenti dell’area di governo – perché essa è in grado di condizionare il modo di legiferare in relazione alle varie questioni che saranno di volta in volta affrontate. In poche parole, ed estremizzando, l’impressione è in sintesi questa: che i nuovi governanti tendano a concepire la legge penale e la pena come armi per combattere i nemici del popolo, identificati come tali alla stregua delle attuali ideologie populiste e in base alle logiche di una persistente campagna elettorale che strumentalizza le paure e i sentimenti di insicurezza (a torto o a ragione) diffusi nella popolazione. Lo ha ben visto, con sensibilità da politologo, Angelo Panebianco in un recente articolo sul Corriere (ed. 15 luglio). Come giurista, rilevo che la propensione a utilizzare il diritto penale come uno strumento di guerra contro nemici sociali di turno, esasperando il rigore punitivo a discapito dei principi del garantismo liberale, costituisce una tentazione storicamente ricorrente. Specie quando nuove forze al potere ambiscono (almeno a livello propagandistico) a realizzare cambiamenti politici radicali insieme a presunte rivoluzioni morali collettive. Questa funzionalizzazione politica in chiave populista ha raggiunto punte estreme, ad esempio, nel caso del diritto penale della Germania nazista (che assunse il “sano sentimento del popolo” a criterio ultimo della punibilità) e in quello del diritto penale della Russia sovietica (che elevò a criterio decisivo del punibile gli interessi del proletariato interpretati alla luce della coscienza rivoluzionaria). Certo, l’attuale compagine governativa è lontana da simili estremismi, ma preoccupa comunque – e non poco – che essa sembri replicare il vizio autoritario di selezionare soggetti pericolosi da bandire dalla società in quanto nemici che attentano alla sicurezza del popolo sano (questa volta immigrati da allontanare e criminalizzare, Rom da sgomberare, ladri e rapinatori da neutralizzare con una “legittima difesa” senza limiti, pene draconiane insieme a Daspo e agenti sotto copertura per i corrotti; e, più in generale, riaffermazione del primato e irrigidimento della pena detentiva, con eliminazione o riduzione dello spazio delle misure alternative, ecc.).
I rischi del populismo giudiziario si possono raccontare con le derive anti garantiste della Germania nazista e della Russia sovietica
Non hanno brillato per profondità e competenza gli argomenti utilizzati da Bonafede e Conte contro la riforma carceraria
In realtà, in una democrazia costituzionale come la nostra, è in linea di principio contestabile che le scelte di politica penale (in quanto incidenti in senso limitativo sulle libertà fondamentali costituzionalmente rilevanti) possano desumere la loro ragione giustificatrice, in termini razionali e valoriali, dalla mera volontà della maggioranza. A maggior ragione, quando – come sta accadendo in Italia – le forze di maggioranza vanno guadagnando consenso, mentre l’opposizione appare sempre più debole. Chi ha oggi la forza di difendere nel dibattito pubblico, e all’interno della discussione parlamentare, le ragioni del garantismo penale così come trasfusi in un insieme di noti principi costituzionali che dovrebbero in teoria fungere da barriere allo strapotere di una maggioranza legiferante? Non a caso, gran parte della riflessione sviluppata dagli studiosi di diritto penale nel corso degli ultimi decenni si è incentrata proprio sui vincoli e i limiti, che la Costituzione oppone alla discrezionalità del legislatore parlamentare al momento di decidere che cosa punire e come punire. Vincoli e limiti, al cui rispetto ha dato un contributo notevole anche la giurisprudenza della Corte costituzionale, e sui quali la elaborazione scientifica mantiene ancora cantieri aperti (si veda, ad esempio, il recente scritto del tedesco Thomas Vormbaum, dove si spiegano i motivi per prevedere costituzionalmente una maggioranza qualificata per creare o modificare norme penali).
Di tutto ciò dovrebbero essere in qualche modo consapevoli anche Giuseppe Conte e Alfonso Bonafede, proprio perché (seppure a livelli diversi di gerarchia accademica) studiosi di diritto, prima ancora che premier e guardasigilli. A meno che, una volta assunto il ruolo di governanti, essi non abbiano voltato le spalle alla loro formazione di provenienza. Sarebbe tranquillizzante poter confidare nel contrario. Ma un qualche sospetto non parrebbe azzardato, considerando ad esempio che non hanno affatto brillato per profondità di pensiero e competenza tecnica gli argomenti utilizzati dallo stesso nuovo Ministro per contrastare la riforma carceraria elaborata dal precedente governo a guida Pd. La critica alla riforma si è avvalsa infatti di slogan e di formulette del tipo “c’è l’esigenza di far stare insieme la rieducazione e la certezza della pena”, oppure la “rieducazione deve essere perseguita col lavoro carcerario” piuttosto che con le misure alternative. Affermazioni di questo genere, se appaiono prive di seria consapevolezza criminologica, risultano però politicamente redditizie perché assai “gradite al popolo”: il messaggio di un carcere tutto da scontare, senza misure alternative da eseguire nel mondo esterno, soddisfa pulsioni punitive e bisogni di sicurezza oggi emotivamente diffusi ancor più che in passato. Ed è questo ciò che politicamente conta davvero per il guardasigilli di un governo come quello in carica (anche se il Bonafede dei tempi dell’apprendistato universitario si sarà, quasi sicuramente, imbattuto in qualche testo didattico o scientifico che spiega perché il carcere così come lo conosciamo, nella maggior parte dei casi, diseduca ulteriormente più di quanto non rieduchi!).
E che dire della riforma, che sembra davvero incombere, della legittima difesa? Gli argomenti spesi per giustificarla hanno invero ancor minore dignità di quelli impiegati per affossare la riforma penitenziaria. E’ infatti un’autentica bufala, una mistificazione propagandistica, far credere ai cittadini che si possa realizzare una modifica legislativa che esenti da indagini e accertamenti giudiziali anche approfonditi colui il quale uccide o ferisce qualcuno allo scopo di difendersi da un’aggressione: se tali accertamenti sono inevitabili persino nel caso dell’uccisione di un cane (per verificare il delitto di uccisione di animali), non si vede come legittimamente prescinderne nel caso ben più grave dell’uccisione di un uomo (per verificare se tale uccisione sia stata veramente giustificata dalla necessità di difendersi, o sia stata ad esempio motivata da una esigenza difensiva soltanto apparente dietro la quale si nasconde in effetti una intenzione criminosa, o da una reazione manifestamente eccessiva che trascende la necessità di autodifesa ecc.).
Una trasformazione della legittima difesa in un diritto di difesa svincolato da limiti invalicabili è una bufala che deve essere smascherata
Il Guardasigilli chiami qualificati rappresentanti della scienza penalistica e li incarichi di riscrivere l’art. 52, sulla legittima difesa
E’, altresì, impensabile riscrivere l’istituto della legittima difesa, eliminando dai suoi presupposti il requisito della “proporzione” tra aggressione e reazione difensiva. Come ben si rileva nella recente (e preoccupata) presa di posizione dell’“Associazione italiana dei professori di diritto penale”, il requisito della proporzione è in ogni caso implicito nello stesso concetto di “necessità” di difendersi: una difesa manifestamente “sproporzionata cesserebbe di essere difesa e assumerebbe i contenuti di un’offesa”. In una democrazia rispettosa di principi di consolidata civiltà giuridica, e del rango prioritario che ai beni della vita e dell’integrità personale (degli stessi delinquenti!) è riconosciuto in una Costituzione come la nostra, nessuna maggioranza parlamentare è autorizzata ad assumere la sicurezza dei cittadini a fondamento giustificativo di una trasformazione della legittima difesa in un diritto di difesa svincolato da limiti invalicabili, come se si trattasse di una incondizionata licenza di uccidere. Una eventuale riforma in questo senso sarebbe sicuramente illegittima, per violazione di principi costituzionali, sovranazionali e internazionali, e come tale sarebbe destinata a essere cassata dalle Corti competenti.
Diverso sarebbe il discorso se, fuori da slogan illusori e fuorvianti, l’obiettivo riformistico fosse quello di migliorare la attuale formulazione dell’art. 52 del codice penale, in modo da consentire prima ai cittadini e poi alla magistratura di individuare con maggiore certezza gli spazi di una autodifesa legittima. E, in aggiunta, si potrebbe eventualmente valutare l’opportunità di una ragionevole integrazione della disciplina vigente, nel senso ad esempio di prevedere espressamente la non punibilità di possibili eccessi difensivi dovuti a grave turbamento psichico. Ma, proprio per agevolare il compito di introdurre modifiche davvero migliorative, scongiurando il rischio di inammissibili stravolgimenti o di soluzioni pasticciate, è auspicabile che i lavori di riforma non siano affidati soltanto alla fabbrica politica. Il nuovo guardasigilli, che certo non disdegna il mondo accademico, chiami in soccorso qualificati rappresentanti della scienza penalistica e li incarichi di partecipare alla riscrittura dell’art. 52. E’ vero che le due ideologie populiste, gialla e verde, dovrebbero mostrare una diffidenza di principio anche verso il ceto professorale. Ma una cosa è la propaganda ideologica, altra cosa è passare dalla propaganda alla gestione del lavoro governativo e legislativo. Come la stessa formazione di questo governo paradossalmente dimostra, i professori servono e servono più di prima.