Giustizia manipolata. Fermiamo l'eversione delle parole del diritto
Con questo governo ogni categoria del diritto viene manipolata e trasformata nel suo contrario, convertita in un prodotto da piazzare direttamente sul mercato del consenso politico
Al direttore - Forse un “vincolo di mandato” dovrebbe essere imposto alle parole. Un vincolo per far sì che le parole che usiamo in politica conservino obbligatoriamente il loro senso compiuto. Un simile “vincolo” dovrebbe essere imposto con particolare rigore nei discorsi di chi si occupa di “politica giudiziaria”, perché le cose della giustizia necessitano di limiti definitori precisi. La “truffa delle etichette” è in questa materia sempre dietro l’angolo e gli slogan che volano rapidi sui social divorano spesso il senso delle cose e dei concetti che le esprimono e così le parole, perso per strada il proprio significato, si trasformano in imposture.
Se, ad esempio, si parla di “efficienza” e di “semplificazione” del processo penale, come si potrebbe essere in disaccordo. La giustizia penale deve funzionare, le procedure devono essere semplici e il processo, come si legge nel contratto di governo, deve essere “giusto e tempestivo”. Ma se giusto e tempestivo significa fermare la prescrizione in primo grado, introdurre la reformatio in peius e rendere di fatto i processi sostanzialmente eterni e le impugnazioni delle improbabili ordalìe, allora ecco che alle parole vengono attribuiti significati diversi, che tradiscono il loro vero mandato. Se, così come si legge in quello stesso contratto, si dice che “la difesa è sempre legittima” non possiamo che essere d’accordo. Si tratta infatti di un principio che è già scritto nella legge: se ci si trova in presenza di una vera e propria “difesa” (e come tale proporzionata e necessaria, perché altrimenti, se così non fosse, trasmoderebbe in una offesa ingiustificata), è ovvio che la stessa sia anche legittima. Ma anche qui le parole, prive di alcun “vincolo” di senso, finiscono con il guadagnarsi, per chi le usa come slogan, significati inaspettati e pericolosi. Se, infatti, “la difesa è sempre legittima”, perché mai – si dice – un magistrato dovrebbe mettere il naso in una questione privata? La tutela del domicilio è cosa talmente seria da imporre di tener fuori, oltre che i ladri, anche giudici e pubblici ministeri. Così il governo del cambiamento diviene cambiamento delle parole. E, ancora, la “certezza della pena”, che nasce come limite e perimetro del potere punitivo dello Stato, affinché il condannato sconti quella pena che è stata inflitta e non altra, diviene arbitrariamente espressione di qualcosa d’altro. Finisce con il porre una inesorabile e assurda equazione fra pena detentiva e carcere, che in nessun moderno e serio sistema punitivo ha corso. Una equazione che contraddice anche il buon senso del principio secondo il quale il reinserimento sociale, cui tende la rieducazione, non può essere praticato lasciando il condannato in carcere.
Insomma, le cose della giustizia penale hanno un’anima coerente e tragica nel fondo, ci si può giocare fino a un certo punto. La politica, che con il processo non ha mai avuto un rapporto sano, ora scopre tuttavia una virtus manipolatoria che non si era mai vista, che apre per tutti noi una fase pericolosa. Ogni categoria del diritto viene infatti direttamente manipolata e trasformata nel suo contrario, convertita in un prodotto da piazzare direttamente sul mercato del consenso politico. Fermare l’eversione delle parole del diritto, deformate da questa nuova fabbrica della banalità, è oggi un dovere di tutti coloro che credono nei valori democratici e liberali che con quelle parole sono stati faticosamente costruiti. E che a quei valori meritano di essere al più presto restituite.
Francesco Petrelli, segretario dell’Unione camere penali
L'editoriale del direttore