Quindi a Roma c'è la mafia?
Dubbi legittimi sulla sentenza d’appello che ribalta il verdetto di primo grado che aveva condannato la banda di Buzzi&Carminati per associazione criminale semplice
Roma. Diceva Leonardo Sciascia che se tutto è mafia nulla è mafia. La Corte d’appello conferma il “teorema Pignatone” (una mafia autoctona, romanissima, esiste) e ribalta il verdetto di primo grado che aveva condannato la banda di Buzzi&Carminati per associazione criminale semplice. “Roma non è Palermo”, scandisce il procuratore capo della capitale, meglio usare cautela in attesa di conoscere le motivazioni. Lo storico Salvatore Lupo è uno dei massimi esperti di Cosa nostra, e collegato al telefono dall’Università di Palermo consegna le sue riflessioni al Foglio. “Io svolgo un mestiere diverso dal magistrato, delle astrazioni della legge penale m’interesso fino a un certo punto. Secondo i criteri dello storico, Mafia capitale non è un’associazione mafiosa. La discussione sulla mafia, avviata oltre centocinquant’anni fa, ha animato fior d’intellettuali e nessuno di loro avrebbe mai ravvisato i connotati di un’associazione mafiosa nella vicenda in oggetto. Un’organizzazione mafiosa non sparisce in seguito all’arresto dei suoi esponenti”.
Il suo è un ragionamento sofisticato, professore: nella realtà non è mafia ma nella codificazione normativa potrebbe esserlo. “La legge deve rispondere ai princìpi di generalità e astrattezza. I parametri di uno storico non sono quelli di un magistrato, e la legge non è la verità. I processi si svolgono attraverso il confronto tra accusa e difesa, alla fine i giudici assumono una decisione. Nel corso del tempo il termine ‘mafia’ ha esteso i propri confini al punto di includere fattispecie diverse, si è affermata una versione al plurale, oggigiorno si parla di ‘mafie’ per riferirsi a storie, vicende, popoli che poco hanno a che vedere con l’esperienza storica di Cosa nostra. Dal 1982, anno dell’entrata in vigore della prima legge sulla mafia (la Rognoni-La Torre, ndr), si è compiuta un’evoluzione nel dibattito pubblico a cui la giurisprudenza non è indifferente”. Per paradosso, a una diversa qualificazione del reato si è accompagnata una riduzione delle pene. “Me ne rallegro, l’Italia è ancora un paese civile. L’associazione mafiosa è di per sé un’aggravante: consente il dispiegamento di strumenti investigativi particolarmente invasivi e prevede massimi edittali più alti. La stessa evocazione della mafia sollecita l’allarme pubblico e radicalizza il confronto. Il momento del giudizio però deve essere giusto, non esemplare”.
Decisamente critico è l’avvocato Francesco Petrelli, segretario dell’Unione Camere Penali: “I reati, quanto più sono gravi, dovrebbero avere una loro ‘plastica evidenza’ e non essere oggetti plasmabili nelle mani delle procure”. E’ accaduto con i Casamonica, gli Spada, i Fasciani: organizzazioni “mafiose”, stando alle sentenze dei tribunali, e ben radicate a Roma. Coppola e lupara rimandano a una concezione antica del mafioso. “E’ così. Tuttavia la strumentalizzazione politica non ha giovato: è sbagliato attendere l’esito di un processo per decidere se una città sia sana o malata. L’amministrazione della giustizia è fitta di contraddizioni: in primo grado, pur in assenza dell’aggravante mafiosa, il tribunale ha inflitto pene doppie o comunque più severe di quelle che la Corte d’appello ha applicato agli imputati affermando la natura mafiosa del fenomeno”. In sintesi, a Roma la mafia c’è, o quantomeno c’è stata. “Le sentenze leggono la realtà attraverso le lenti di una fattispecie legale, non stabiliscono che ‘a Roma c’è la mafia’ ma che in un determinato contesto un gruppo di persone ha costituito un’associazione dotata di forza intimidatoria e vincolo omertoso; è bene evidenziare che entrambi questi elementi strutturali devono derivare non dalla paura provocata dal singolo ma dall’organizzazione medesima”. Il procuratore Pignatone ha usato prudenza: il primo problema della capitale, ha detto, non è rappresentato dalla mafia ma dai reati contro la pubblica amministrazione. “Concordo – replica Petrelli – Viene però da domandarsi perché in Italia esista un doppio binario: le procure insistono sul legame tra corruzione e mafia, in forza dell’articolo 416 bis l’azione investigativa si fa più spedita e rapida, i tempi delle indagini si allungano, i limiti per le intercettazioni si allentano”. Per Carminati e Buzzi, attualmente detenuti, si prospetta il ritorno al 41 bis? “Potrebbe accadere. La legge dell’ordinamento penitenziario prevede la totale ostatività per i reati di mafia ai fini dell’eventuale fruizione di misure alternative. In tal caso, si continuerebbe ad applicare esclusivamente lo sconto dei 45 giorni per semestre”.
L’avvocato Gianluigi Pellegrino rifiuta la tesi di una sentenza di primo grado “ribaltata” in appello. “La cautela del procuratore Pignatone, a mio avviso, si spiega così. Considerando la riqualificazione del reato e la riduzione delle pene, si deriva l’impressione che i giudici abbiano individuato una ‘mafietta’ sui generis. L’interpretazione della norma ha consentito di inquadrare un’articolazione diversa da quella che l’accezione comune identifica come ‘mafia’. Si tratterebbe, nello specifico, di una mafietta locale, provincialotta, caratterizzata dalla temporaneità: un’associazione che ha vissuto una stagione, è nata ed è morta in seguito agli arresti di quattro personaggi. Mi sembra una questione puramente nominalistica”. Un bisticcio di parole? “I giudici hanno dispiegato l’ombrello punitivo del 416 bis non per dire che a Roma esiste la mafia, ma per affermare l’esistenza di un’organizzazione diversa dalla mafia conosciuta fino a oggi. Pignatone, non a caso, ripete che Roma non è Palermo”. Siamo alle mafie di ultima generazione. “Diciamo che non esistono soltanto le mafie tradizionali. Un boss della ’ndrangheta continua ad essere tale anche quando è dietro le sbarre, all’esterno l’organizzazione mafiosa sopravvive. Nel caso di Mafia capitale si riscontra un’inedita temporaneità”. Nessuna conseguenza per il diritto di difesa? “Toccherà valutare attentamente la compatibilità dell’estensione normativa con i principi del diritto. Il 416 bis è stato concepito per fronteggiare fenomeni patologici ed emergenziali. Le ripercussioni sul fronte delle garanzie di indagati e imputati potranno essere soppesate soltanto alla luce delle motivazioni”.