Sentenza contro il metodo Travaglio. Tiziano Renzi risarcito con 95 mila euro
La prima sezione civile del tribunale di Firenze condanna il direttore del Fatto Quotidiano per alcuni articoli sulle indagini per bancarotta (poi archiviate) a carico del padre dell'ex premier
Dire che uno “fa bancarotta”, se è soltanto indagato, è diffamazione. Nella sentenza del tribunale di Firenze che condanna Marco Travaglio e dà ragione a Tiziano Renzi non c’è soltanto l’esito finale di una denuncia: c’è la radicale censura di un metodo. La cultura del sospetto, eretta a paradigma giornalistico, non regge la prova del tribunale.
“Abbiamo combattuto una guerra all’ultima memoria, alla fine abbiamo vinto”, dichiara l’avvocato Luca Mirco che incassa il successo e affila le armi in vista dei prossimi match giudiziari. La sentenza, emessa dalla prima sezione civile del tribunale di Firenze, conferma il contenuto diffamatorio di tre dei cinque articoli, pubblicati su Il Fatto quotidiano e impugnati dal padre dell’ex presidente del Consiglio, cui viene riconosciuto un risarcimento complessivo di 95mila euro. “I Babboccioni”, s’intitola così l’articolo del 24 dicembre 2015, a firma del direttore Marco Travaglio, in cui si assume che babbo Renzi sia un bancarottiere ma “la notizia deve ritenersi falsa”, scrive il giudice Lucia Schiaretti: all’epoca Renzi senior era sotto indagine per questo reato a Genova ma il 29 luglio 2016 la vicenda si è chiusa con un’ordinanza di archiviazione, su richiesta della stessa procura.
Marco Travaglio, una sua collega, la società del Fatto Quotidiano sono stati citati in giudizio da Tiziano Renzi per numerosi articoli. Oggi la prima sentenza. Travaglio con i suoi colleghi è stato condannato a pagare a mio padre 95.000€: è solo l'inizio. Il tempo è galantuomo.
— Matteo Renzi (@matteorenzi) 22 ottobre 2018
Capita dunque di essere indagati e poi scagionati, anche se per il “metodo Travaglio” certe sottigliezze non contano. “In tema di cronaca giudiziaria relativa alla fase delle indagini preliminari – si legge nel provvedimento – grava sul giornalista il dovere, proprio in ragione della fluidità e incertezza ontologica del contenuto delle investigazioni, di raccontare i fatti senza enfasi o indebite anticipazioni di colpevolezza, non essendogli consentite aprioristiche scelte di campo o sbilanciamenti di sorta a favore dell’ipotesi accusatoria, capaci di ingenerare nel fruitore della notizia facili suggestioni, in spregio del principio costituzionale di presunzione d’innocenza dell’imputato e a fortiori dell’indagato sino a sentenza definitiva”.
Insomma, l’inchiesta è un’ipotesi tutta da verificare, il processo può confermarla o sconfessarla, il dibattimento non è un orpello inutile ma il cuore del procedimento giudiziario. Per questo il titolo che condanna prima della sentenza è barbarie, altro che libertà di stampa. Evidenziando una degenerazione già stigmatizzata dal Garante della privacy contro il “giornalismo da trascrizione”, il giudice fissa alcuni paletti in materia di deontologia professionale: “Quando le informazioni desumibili da un provvedimento giudiziario sono utilizzate per ricostruzioni o ipotesi giornalistiche tendenti ad affiancare o a sostituire gli organi investigativi nella ricostruzione di vicende penalmente rilevanti e autonomamente offensive, il giornalista deve assumersi direttamente l’onere di verificare le notizie e di dimostrarne la pubblica rilevanza, non potendo reinterpretare i fatti nel contesto di un’autonoma e indimostrata ricostruzione giornalistica”.
I segugi della notizia, inclusi coloro che ottengono le carte prima degli altri, non possono inventarsi di sana pianta colpevoli che non ci sono: l’articolo 27 della Costituzione vale anche per loro. “L’attribuzione certa di un reato con le parole ‘fa bancarotta’, prima dell’accertamento del fatto stesso da parte dell’autorità giudiziaria che ha un’indagine in corso, integra senz’altro gli estremi della diffamazione”, e tale circostanza, aggiunge il giudice, “non poteva sfuggire all’autore dell’articolo, estremamente esperto nel processo penale e nella cronaca giudiziaria”.
Dell’articolo del 9 gennaio 2016, a firma di Gaia Scacciavillani, invece, il giudice ritiene diffamatorio il titolo: “Banca Etruria, papà Renzi e Rosi. La coop degli affari è nel mirino dei pm”. Così il “metodo Travaglio” finisce di nuovo sul banco degli imputati: “Senza neanche leggere l’articolo, si è portati a ritenere che papà Renzi faccia parte della coop degli affari nel mirino dei pm (la Castelnuovese, ndr) ma in realtà nell’articolo nulla si dice in ordine ad indagini che riguardino personalmente Tiziano Renzi”.
Il titolo a effetto, che tira in ballo il nome di richiamo seppur privo di attinenza con il contenuto, è una tecnica da manganellatori: si configura infatti “una violazione del canone di continenza formale, ovvero di un onere di presentazione misurata della notizia”. Il terzo articolo diffamatorio porta ancora la firma del direttore Travaglio: 16 gennaio 2016, editoriale dal titolo “Hasta la lista” in cui il nome di babbo Renzi è accostato a Valeriano Mureddu, additato dal giornalista come appartenente alla P3: “La frase relativa a Mureddu che ‘vive a Rignano sull’Arno a due passi dalla casa del premier e ha fatto affarucci con Tiziano Renzi’, soprattutto senza che in nessuna parte dell’articolo sia spiegato quali sarebbero tali ‘affarucci’, è senz’altro lesiva della reputazione di Tiziano Renzi: rappresenta infatti una mera illazione che, dal presupposto della conoscenza tra due persone, fa derivare una non meglio precisata illecita cointeressenza, che cagiona certamente discredito e, per di più, l’impossibilità totale di difendersi, attesa la sua genericità”.