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Sportellate su Mafia Capitale. Intervista con Pignatone

Claudio Cerasa

Caso Consip, sentenza su Raggi, abusi sulle intercettazioni, rischi del populismo penale e storia della “piccola mafia capitale”. Pazza chiacchierata con il procuratore capo di Roma

Abbiamo fatto una mezza pazzia e abbiamo provato a capire se ciò che ci sembrava difficile sarebbe stato possibile. Abbiamo passato anni, su questo giornale, a spiegare le ragioni per cui a nostro avviso l’inchiesta su Mafia Capitale aveva tutti i tratti di un’inchiesta sbagliata, carica di fatti alternativi tutti tendenti a trasformare la Capitale d’Italia in una nuova Corleone dominata da benzinai piuttosto che da padrini, e abbiamo anche provato a spiegare perché, a prescindere da quale sarà l’iter giudiziario di una delle più famose inchieste italiane degli ultimi anni, dire che a Roma  esistono i requisiti classici dell’organizzazione per delinquere di stampo mafioso è un qualcosa che meriterebbe di essere lasciato solo agli sceneggiati televisivi. Abbiamo fatto dunque una mezza pazzia e dopo la sentenza con cui la Corte di appello, a settembre, ha confermato ciò che la sentenza di primo grado non aveva confermato, ovvero che a Roma esiste una Mafia Capitale e che “la forza intimidatrice” di un’associazione di tipo mafioso non deve essere esclusivamente fondata sulla “violenza” ma anche sulla “contiguità politica ed elettorale” che trova nel “metodo corruttivo” la sua peculiarità, abbiamo chiesto in modo sfacciato al procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, di discutere di questa storia della mafia a Roma proprio con noi. Pignatone ha accettato con un sorriso, promettendoci di farci cambiare idea su Mafia Capitale – non è successo, ma qualcosa in più l’abbiamo capito – e noi abbiamo colto quest’occasione per provare a ragionare, per quanto possibile, su una serie di inchieste delicate che passano oggi dalla procura di Pignatone e a osservare con un taglio non convenzionale cosa c’è che non funziona oggi nella giustizia italiana. L’elenco delle indagini note partite dalla procura di Roma, Mafia Capitale a parte, è notevole e nei prossimi mesi la procura romana tornerà a essere al centro dei riflettori per via di alcuni casi giudiziari che in un verso o in un altro contribuiranno a scrivere alcuni pezzi della storia italiana. Entro l’anno, sarà chiaro che fine farà Alfredo Romeo, rinviato a giudizio per una tangente da 100 mila euro che avrebbe versato all’ex dirigente di Consip Marco Gasparri, che da parte sua ha già patteggiato la pena di un anno e otto mesi per il reato di corruzione. Entro l’anno sarà chiaro che fine faranno le inchieste aperte dalla procura di Roma su Gianpaolo Scafarto, accusato dei reati di falso, depistaggio e rivelazione di segreto istruttorio nell’ambito dell’inchiesta Consip. Entro l’anno sarà chiaro che fine faranno le indagini a carico di Luca Lotti, Filippo Vannoni, Emanuele Saltalamacchia, Tullio Del Sette accusati sempre nel filone Consip di rivelazione di segreto d’ufficio. Entro l’anno, dovrebbe essere chiaro anche il futuro dell’indagine sul braccio destro di Virginia Raggi Luca Lanzalone, arrestato a giugno con l’accusa di associazione per delinquere. In tempi brevi si saprà se verrà presentata la richiesta di rinvio a giudizio e se arriverà a sentenza il processo a carico di Raffaele Marra per corruzione. Ed entro l’anno, infine, dovrebbe essere anche chiaro il futuro di Virginia Raggi, accusata di falso per la nomina a capo della direzione Turismo di Renato Marra, fratello di Raffaele, e il cui processo, salvo novità delle prossime settimane, andrà a sentenza il dieci novembre – la pena per il falso arriva al massimo fino a sei anni, in caso di condanna il sindaco di Roma ha annunciato che si dimetterà, in caso di assoluzione il sindaco di Roma potrà rivendicare il fatto di non avere la minima idea di quello che succede nel suo comune.

 

La nostra conversazione con Giuseppe Pignatone comincia da lontano e, premesso naturalmente che per tutti gli indagati vale la presunzione di non colpevolezza fino alla sentenza definitiva, comincia da un altro caso che negli ultimi anni ha portato la procura di Roma al centro del dibattito pubblico: il caso Consip. Con Pignatone partiamo da qui. 

 

Il procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone inizia e la mette così: “Sotto la dizione di caso Consip si indicano tanti e diversi filoni di indagine, alcuni dei quali già arrivati davanti ai giudici; ma, al di là di quello che sarà il destino dell’inchiesta, credo sia stato importante avere accertato che l’informativa dei carabinieri del Noe conteneva delle affermazioni non corrispondenti al vero”. Il riferimento di Pignatone è relativo ad alcuni punti dell’inchiesta che ha coinvolto anche i famigliari dell’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi e il procuratore capo di Roma – la cui procura una volta ricevuta l’indagine da Napoli ha revocato al Nucleo operativo ecologico scelto da Henry John Woodcock la delega per le ulteriori indagini affidandole al Nucleo investigativo di Roma dell’Arma dei carabinieri – rivendica di aver già raggiunto un risultato: “Nell’informativa ci sono affermazioni non corrispondenti al vero” ma “a oggi non è stato stabilito se siano state fatte in buona o cattiva fede”.

 

Chiediamo al procuratore: ma se fossero state fatte in cattiva fede, un cittadino cosa dovrebbe desumere? “Non è compito mio rispondere a questa domanda. Noi non abbiamo mai parlato di complotto”. A sua memoria era mai successo che la famiglia legata a un presidente del Consiglio fosse oggetto di una informativa non corrispondente al vero? Il procuratore dice di non poter rispondere alla domanda, ci pensa e la prende alla larga. “Credo siano stati raggiunti alcuni risultati significativi. Così come credo sia stato importante provare ad accertare le singole responsabilità sulle rivelazioni di notizie coperte da segreto investigativo”. Pignatone si riferisce non solo al sospetto che Scafarto abbia passato al Fatto quotidiano il 22 dicembre del 2017 alcune notizie che non potevano essere rivelate ma anche “alle gravissime rivelazioni illecite che hanno costellato la prima fase delle indagini, probabilmente pregiudicandone alcuni possibili esiti”.

 

Lo spunto di Consip ci permette dunque di restare su un tema a cui il procuratore di Roma ha dedicato molta attenzione negli ultimi anni: le intercettazioni. Più o meno tre anni fa Pignatone inviò ai magistrati del suo ufficio una circolare relativa alla corretta individuazione del materiale da trascrivere. Tre anni dopo Pignatone dice che qualcosa è cambiato in positivo e coglie l’occasione di questa chiacchierata per provare a spiegare perché un paese che sottovaluta il tema delle intercettazioni date in pasto all’opinione pubblica senza controllo è un paese che ha smesso di avere a cuore lo stato di diritto. “La circolare aveva un obiettivo: ricordare che il materiale manifestamente irrilevante non deve essere trascritto. Questa circolare è stata la prima di una serie, molti uffici poi hanno fatto circolari simili e credo abbia fornito uno stimolo anche al Consiglio superiore della magistratura, che ha poi emanato una direttiva che raccoglie le indicazioni dei procuratori. Il punto dovrebbe essere evidente. Il codice prevede che le intercettazioni irrilevanti vengano stralciate dal giudice. La circolare aveva come obiettivo quello di far capire che ancora prima dell’intervento del giudice è necessario fare attenzione a ciò che ha una rilevanza processuale e a ciò che non ne ha. Quello che però coloro che si occupano di questi temi, anche sui giornali, dovrebbero avere chiaro è che il concetto di irrilevanza purtroppo non è un qualcosa di oggettivo che possa essere stabilito a priori: una data circostanza può essere irrilevante per il pubblico ministero ma decisiva per il difensore, e viceversa; inoltre l’importanza di una notizia, apparentemente neutra, intercettata oggi può emergere ed essere compresa tra due mesi in relazione ad altri sviluppi dell’indagine. E ancora, vanno tenuti in considerazione la natura e l’oggetto del procedimento: una cosa è fare accertamenti chiaramente limitati su un furto o una rapina, un’altra cosa è indagare su una associazione mafiosa o su una rete corruttiva in cui si devono ricostruire tutti i rapporti tra i vari soggetti e possono diventare significativi anche i dati personali. Su un piano più generale, in questa delicata materia ci sono almeno quattro interessi costituzionalmente garantiti che devono essere messi in equilibrio. Primo: quello dello stato di perseguire il reato. Secondo: il diritto di difesa. Terzo: il diritto di informazione e la libertà di critica. Quarto: quello alla privacy”.

 

Il ragionamento di Pignatone è chiaro ma non ci aiuta a comprendere un problema sul quale proviamo a incalzare ancora il procuratore: cosa può fare oggi il sistema giudiziario e politico per combattere la dittatura dello sputtanamento? Pignatone risponde che il punto di equilibrio lo fissa il legislatore, mentre i magistrati, la polizia giudiziaria e le altre parti devono rispettarlo scrupolosamente, e ricorda che per richiamare su questo punto l’attenzione e la sensibilità degli operatori si sono dimostrate utili anche le circolari. Il procuratore, sempre su questo terreno, ci offre poi un ulteriore elemento di riflessione: se il problema sono le pubblicazioni sui giornali, dice Pignatone, “la prima osservazione da fare è che nella quasi totalità dei casi le notizie pubblicate non sono segrete perché depositate come prescrive il codice. Problema diverso è invece che anche la pubblicazione di notizie non segrete spesso costituisce reato, ma queste violazioni possono oggi essere definite in via amministrativa con il pagamento di una modesta somma. E questo è un tipico esempio di scelta discrezionale del legislatore che in questo caso ha voluto privilegiare la libertà di informazione”.

 

Il tema delle intercettazioni, che è uno dei punti chiave del programma del governo del cambiamento, e i lettori del Foglio sanno cosa pensa questo giornale di tutti i politici che lo sputtanamento piuttosto che combatterlo lo alimentano anche a costo di violentare lo stato di diritto, ci consente di provare a entrare nel merito di alcune riforme proposte dall’attuale governo sul terreno della lotta della corruzione. Pignatone ricorda che fino a quando un testo definitivo non c’è non si può entrare nel merito di una riforma, ma su alcuni punti il procuratore non ha mai nascosto le sue posizioni e accetta di rispondere. “Il disegno di legge del governo saggiamente non ha previsto la possibilità di usare un agente provocatore per combattere la corruzione. E’ uno strumento pericoloso che si presta a strumentalizzazioni perché non serve necessariamente a scoprire colpevoli ma può servire invece a crearli. E ho forti dubbi anche sulla esclusione della punibilità per chi denunzia fatti di corruzione, di cui è stato responsabile, prima dell’inizio delle indagini. Si rischia in questo modo di reintrodurre dalla finestra la figura dell’agente provocatore, peraltro sganciata da qualsiasi controllo preventivo da parte del pubblico ministero”.

 

Chiediamo al procuratore, prima di arrivare al dossier di Mafia Capitale, se per combattere in modo più efficace alcuni crimini è corretto giocare con le pene, e inasprirle. Pignatone ricorda che sulla corruzione ci sono già pene molto elevate, e che sono state anche aumentate di recente, ma concorda sul fatto che quello che il Foglio definisce “populismo penale” non è la giusta strada per migliorare il sistema della giustizia. “Il punto cruciale è l’efficienza del meccanismo processuale che ti consente di scoprire i colpevoli e poi fare un processo in tempi ragionevoli. Lo stato può anche decidere che per un delitto sia prevista la detenzione fino vent’anni, ma la minaccia cade nel vuoto se non si fanno tempestivamente i processi. Le cause della crisi sono molteplici ma certamente il sistema processuale italiano paga oltre misura la scarsità di risorse esistenti e paga naturalmente la scelta di avere tre gradi di giudizio. Non sta a me dire se sia giusto o no avere tre gradi, sono scelte del legislatore, e io ho amore per Montesquieu e la separazione dei poteri, ma bisogna sapere che le cose stanno così e regolarsi di conseguenza. Per questo non ha senso polemizzare perché in Italia ci sono molti più detenuti in attesa di giudizio che in altri paesi dove però non è previsto l’appello. Se si vuole un sistema più giusto occorre lavorare per avere un sistema più efficiente”.

 

E come si fa a rendere più efficiente questo sistema? E’ una strada corretta per esempio intervenire non per ridurre i tempi dei processi ma per allungarli lavorando per rendere meno efficace il rito abbreviato e il patteggiamento e per aumentare i tempi della prescrizione come sogna di fare il governo del cambiamento? Pignatone dice che “prima di indebolire il patteggiamento e l’abbreviato sarebbe bene pensarci su”. Poi fa una pausa e riparte dal tema fogliante del populismo penale. “Non parlo di questo governo, ma osservando quanto è accaduto negli ultimi decenni in Italia mi sembra che ci sia una tendenza della politica ad aumentare le pene di fronte a problemi che hanno un grande impatto sociale. Il legislatore è libero nelle sue scelte, ma creare delle aspettative che non si è in grado di soddisfare non è un modo per rendere il sistema della giustizia più forte. Anzi, in alcuni casi rischia persino di innescare un circuito perverso di grandi attese e di conseguenti delusioni che ricadono sul sistema della giustizia penale di cui siamo tutti in qualche modo partecipi, come fruitori o come vittime”. Procuratore, ma non c’è un problema in Italia se il presidente della Repubblica è costretto a ricordare che non esiste alcun cittadino al di sopra della legge? “Non dovete chiederlo al procuratore della Repubblica”.

 

Il procuratore non tradisce Montesquieu e allora arriviamo al tema da cui siamo partiti: la storia di Mafia Capitale. Chiediamo a bruciapelo a Pignatone: ma lei rifarebbe il famoso intervento al convegno del Pd romano che anticipò di qualche giorno gli arresti di mafia capitale? Pignatone ci fredda con lo sguardo e mentre dice “eccoci qui, aspettavo da tempo di rispondere a questa domanda” tira fuori da una carpetta alcuni fogli di carta. E’ il suo intervento alla conferenza programmatica del Pd del 27 novembre 2014. Pignatone ci gira le due paginette e ci dice: “Adesso mi dovete dire cosa c’era di male in quell’intervento”. Leggiamo il discorso, la prima parte scorre via bene, la seconda parte pure ma a un certo punto troviamo il passaggio incriminato: “Le indagini dei prossimi mesi ci diranno se vi sono altre organizzazioni di tipo mafioso operanti in città. E quali caratteristiche esse abbiano”. Eccolo, procuratore! “E cosa ci sarebbe di scandaloso?”, dice Pignatone, “e cosa ci sarebbe di male? Qui c’è un procuratore che viene invitato a un’assemblea programmatica di un partito, e vi assicuro che sarei andato all’assemblea programmatica di un qualsiasi altro partito che avesse voluto parlare della città in cui lavoro, dopo di che il procuratore dice che dopo alcune indagini già note a Roma, come quelle di Ostia, ce ne sarebbero state altre per verificare se sul territorio della Capitale d’Italia esiste o no la mafia. Lo abbiamo fatto con spirito laico e serio e oggi possiamo dire che chi nel 2014 diceva che a Roma la mafia non esiste aveva torto. Ma allo stesso tempo dissi, e ridirei oggi, che il problema principale di Roma non è la mafia ma è la corruzione. Così come dissi, e lo rivendico, che avremmo tenuto sempre fermo un principio base: che le indagini si fanno a 360°, senza pregiudizi di alcun tipo né positivi né negativi. E ovviamente noi abbiamo sempre detto, fin dal primo giorno, che Roma non è Palermo o Reggio Calabria”.

 

Pignatone parla alla luce della sentenza di appello che su Mafia Capitale ha confermato le tesi della sua procura dopo la bocciatura in primo grado e rispetto a quella sentenza chiediamo al procuratore se non fosse stato più opportuno chiamare quell’inchiesta non “Mafia Capitale” ma “corruzione capitale”. Se il problema è la corruzione, e se la presunta mafia romana, che fino al terzo grado di giudizio resterà tale, non è la vera emergenza di Roma perché puntare tutto sull’idea che Roma sia devastata da un virus che si chiama più mafia che corruzione? “Perché noi abbiamo fatto decine di indagini e di processi sulla corruzione, a tutti i livelli, ma il dato fondamentale di questa specifica inchiesta non è la corruzione ma è la mafia. Più in generale oggi possiamo dire che, allo stato attuale dei processi, questa procura aveva ragione. La mafia a Roma esiste. Esistono i metodi mafiosi di Ostia e sono ormai numerose le sentenze dei giudici di merito e della Cassazione che hanno condannato per il reato di associazione mafiosa o per uso del metodo mafioso esponenti dei clan Fasciani e Spada, di quello dei Pagnozzi e di uno dei clan Casamonica, oltre che di altri gruppi criminali meno noti. C’è la mafia a Roma. E non parlare di mafia quando c’è è sbagliato e porta a sottovalutare le situazioni di crisi, come dimostra il caso di Ostia, e a non adottare le misure volute dal legislatore”.

 

Insistiamo: era proprio necessario chiamare Mafia Capitale un’inchiesta il cui titolo ha contribuito a dare l’impressione che Roma fosse diventata la nuova Corleone? “Noi non abbiamo mai chiamato così l’inchiesta, l’abbiamo chiamata ‘Mondo di mezzo’ e abbiamo sempre detto che è una sciocchezza dire che Roma è la nuova Corleone”. Mondo di mezzo in effetti è l’espressione usata dalla procura ma, facciamo notare a Pignatone, nell’ordinanza di custodia cautelare firmata il 28 novembre 2014 dal giudice Flavia Costantini l’espressione “mafia capitale” compare, per l’esattezza, ottantasette volte, addirittura con un ammiccamento già alle prime righe della sentenza: “Mafia Capitale, volendo dare una denominazione all’organizzazione…”. Pignatone fa un respiro e prova a essere diplomatico. “Dobbiamo metterci d’accordo sull’espressione. E’ quasi offensivo dire a me, che vengo dalla Sicilia e da Reggio Calabria e che sulla mafia a cui fa riferimento lei ho fatto indagini e processi, che confondo Carminati e compagni con la cupola di Palermo. Il punto è che c’è chi, come lei, pensa che la mafia è solo quella tradizionale delle regioni meridionali con centinaia di affiliati, un controllo militare del territorio e l’uso continuo e manifesto della violenza fisica. Ma per il codice penale non è così. E quella di Roma è una piccola mafia, ma pur essendo piccola è sempre una associazione di tipo mafioso”. Pignatone si riferisce a una sentenza della Cassazione che il 28 dicembre del 2017 si è pronunciata in merito alla configurabilità del delitto di associazione a delinquere di stampo mafioso (art. 416-bis c.p.) con riferimento alla così detta mafia “non tradizionale”, rappresentata, nel caso specifico, dalla attività criminale del clan Fasciani di Ostia”. In tema di mafia “non tradizionale” (o “non storica”), la Cassazione ha ribadito l’orientamento giurisprudenziale secondo cui “nello schema normativo previsto dall’art. 416-bis c.p. non rientrano solo grandi associazioni di mafia ad alto numero di appartenenti, dotate di mezzi finanziari imponenti, e in grado di assicurare l’assoggettamento e l’omertà attraverso il terrore e la continua messa in pericolo della vita delle persone, ma vi rientrano anche le piccole ‘mafie’ con un basso numero di appartenenti (bastano tre persone), non necessariamente armate che assoggettano un limitato territorio o un determinato settore di attività avvalendosi, però, del metodo dell’intimidazione da cui derivano assoggettamento ed omertà”. E si riferisce ancora alla sentenza della Cassazione dell’aprile 2015 che, confermando proprio le misure cautelari di Mafia Capitale ha affermato che “ai fini della configurabilità del reato di associazione di tipo mafioso, la forza intimidatrice espressa dal vincolo associativo può essere diretta a minacciare tanto la vita o l’incolumità personale, quanto, anche o soltanto, le essenziali condizioni esistenziali, economiche o lavorative di specifiche categorie di soggetti, ed il suo riflesso esterno in termini di assoggettamento non deve tradursi necessariamente nel controllo di una determinata area territoriale”. Pignatone dice che “le piccole mafie esistono e continuano a esistere a Roma”, ricorda che ancora oggi a Roma sono operative “diverse organizzazioni mafiose” nel senso che anche negli ultimi anni “sono emersi altri gruppi che utilizzano il metodo mafioso come modo tipico di operare e stare sul mercato della criminalità”, oltre che, naturalmente, gli esponenti delle mafie tradizionali, attivi soprattutto nel traffico di droga e nel reinvestimento di grandi capitali. E rivendica il fatto che è “anche grazie alle indagini della polizia giudiziaria e della procura e al lavoro dei giudici se ciò che esisteva a Roma è stato finalmente provato”. Le convinzioni di Pignatone restano solide, le nostre pure, e alla fine ci congediamo da Piazzale Clodio con una domanda e un sorriso: procuratore, ma se tutti quanti avessero chiamato Mafia Capitale solo “piccola mafia capitale” non sarebbe stato un bene per tutti? Pignatone sorride: “Mafia Capitale è una piccola mafia ma resta sempre una mafia anche se è diversa da quella tradizionale. E se mafia capitale è stata scompaginata ne restano altre, troppe altre, che a Roma operano e si arricchiscono in danno di tutti noi, grazie anche alla sottovalutazione della loro pericolosità e della loro capacità di condizionamento”. Piccola mafia capitale. Sarebbe bello se i prossimi sceneggiati e i prossimi romanzi sulla nuova Corleone d’Italia iniziassero così. Ma abbiamo un sospetto: purtroppo siamo sicuri che non succederà.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.