Scafarto e l'attacco politico a Renzi. La procura sgonfia la fuffa di Consip
La procura di Roma chiede l’archiviazione per Tiziano Renzi. Il lato politico di un caso anomalo
Roma. “Dovrei gioire? E di che cosa? La diffamazione è compiuta, la serenità perduta non torna, il mio nome è macchiato per sempre”. Tiziano Renzi viene raggiunto dall’ennesima “buona notizia”, si fa per dire, mentre è al capezzale di un amico malato. Scarne parole, per ora. La procura di Roma ha chiesto l’archiviazione per l’uomo innanzitutto colpevole di essere il padre dell’allora presidente del Consiglio, per una vicenda, il caso Consip, che sin dal principio appariva come un’anomalia destinata a interferire con gli equilibri istituzionali. In questo Consip-gate sono in ballo la legalità e la stessa democrazia, giacché, all’epoca dei fatti, Matteo Renzi era a capo di un esecutivo legittimamente designato. Salvo colpi di scena, Tiziano Renzi sarà archiviato, per la procura di Roma non sussistono elementi sufficienti per procedere nei suoi confronti. L’accusa era di quelle fumose, traffico d’influenze, reato evanescente e scarsamente tipizzato, che Renzi senior respinge dal principio, non senza celare la delusione umana per un’amicizia, quella con il giovane imprenditore di Scandicci Carlo Russo, evidentemente da costui mal gestita. Russo, infatti, si muove come un esagitato tra i palazzi romani, tenta di accaparrarsi commesse e appalti, esibisce la conoscenza con Renzi senior come un biglietto da visita per instaurare sodalizi economici. Per lui si profila un processo per millantato credito, chissà con quali esiti, così come rischiano di finire alla sbarra l’ex ministro dello Sport Luca Lotti e il generale dell’Arma Emanuele Saltalamacchia (entrambi per favoreggiamento), insieme all’ex comandante generale dei carabinieri Tullio Del Sette (per rivelazione del segreto d’ufficio).
Ma il vero protagonista del Nuovo Cinema Consip, il crocevia delle relazioni più delicate e delle trame più oscure di questa inchiesta, resta l’ex maggiore del Noe Gianpaolo Scafarto, chiamato a rispondere di crimini come depistaggio, falso e segreto violato. E che dire del ramo giudiziario dell’inchiesta avviata a Napoli, e poi trasferita per competenza a Roma, con un “atto d’imperio”, di per sé inconsueto, del procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone che a marzo dello scorso anno revoca la delega per le indagini ai carabinieri del Noe, che fino ad allora avevano operato sotto la guida dei magistrati partenopei, e la affida ai colleghi di Roma. Il Nucleo operativo ecologico è la sezione specializzata in reati ambientali che, con la coppia Scafarto-Henry J. Woodcock, si occupa abitualmente di appalti e corruzione. Un connubio singolare a proposito del quale lo stesso Scafarto, intervistato da questo giornale, ammise candidamente: “E’ un’anomalia, non mi nascondo dietro a un dito. Anche se una matrice ambientale la si trova sempre…”. Dunque, la procura capitolina mette sotto indagine chi le indagini doveva farle: è il paradosso di una storia che in un paese normale, appena civile, sarebbe oggetto di pubblico dibattito e di inchieste tempestive ed efficaci per individuare chi tentò, con un’operazione ben pianificata, di disarcionare l’allora presidente del Consiglio. Scafarto, recentemente rientrato in servizio al comando legione Campania senza incarichi investigativi, già pupillo del colonnello Sergio De Caprio, alias Capitano Ultimo, e per anni ufficiale di collegamento tra il militare che arrestò Totò Riina e il magistrato Woodcock, non ha ancora fornito una spiegazione convincente su una ridda di sviste e manipolazioni, tutte finalizzate a suffragare la tesi della colpevolezza di Renzi senior e la necessità di arrestarlo. “Ho redatto in 17 giorni un’informativa delicata che richiedeva almeno due mesi di lavoro”, si giustificava così nel colloquio dello scorso aprile con il Foglio.
Rinfreschiamoci la memoria con alcuni esempi. Nella chat Whatsapp con i suoi uomini, tra il 2 e il 3 gennaio 2017, nei giorni immediatamente precedenti alla consegna dell’informativa ai magistrati napoletani, Scafarto chiede con insistenza di reperire un’intercettazione che dimostri il presunto incontro tra l’imprenditore Alfredo Romeo e Renzi senior. Le risposte languono, Scafarto incalza: “Remo, per favore, riascoltala subito. Questo passaggio è vitale per arrestare Tiziano. Grazie. Attendo trascrizione”. Passano alcune ore, e Scafarto non riceve quello che ha chiesto. “Remoooooooo, hai trovato quel passaggio che dicevo?”, domanda. Il carabiniere risponde: “Sto trascrivendo. Ho trovato quel passaggio e sembra che sia Bocchino che dica quella frase”. Al capitano del Noe la risposta non piace: “Ascolta bene e falla ascoltare pure a qualcun altro”. Il militare rincula: “Già fatto e siamo giunti alla conclusione che c’è Bocchino che, abbassando il tono della voce, dice quella frase”. Scafarto chiede che quel file audio con l’intercettazione gli venga inviato ma di fatto lo ignora perché nel testo finale attribuisce a Romeo le parole di Bocchino, avvalorando la tesi di un presunto incontro tra l’imprenditore casertano e il padre dell’ex premier. Che sfiga, verrebbe da dire. Su ordine della procura di Napoli, Renzi senior viene intercettato per mesi, gli piazzano le cimici fin nel giardino di casa a Rignano. Che cosa trovano? Nulla. Col senno di poi, possiamo dire che quest’uomo, all’età di sessantasette anni, ha sfiorato un arresto; fino all’approdo del figlio a Palazzo Chigi, non aveva mai avuto problemi con la giustizia. C’è poi il capitolo, inventato di sana pianta, relativo al coinvolgimento dei servizi segreti: il team guidato da Scafarto nota un Suv in piazza Nicosia, vicino agli uffici dell’imprenditore Alfredo Romeo, all’esito degli accertamenti scopre che il proprietario è un cittadino sudamericano, impiegato dell’Opera Pia; a dispetto dell’evidenza raccolta, gli inquirenti decidono che il soggetto in questione sia uno 007 ingaggiato da Palazzo Chigi per depistare le indagini. Scafarto afferma che il Suv somigliava a una macchina tecnica, di quelle che si usano per i pedinamenti, e alla nostra domanda sul perché, in assenza di riscontri, abbia ugualmente redatto un capitolo sul fantomatico ruolo dei servizi, risponde: “Woodcock mi ha detto espressamente di compilare una sezione apposita, io ho eseguito”. La tesi di fondo è che Roma insabbi per proteggere il fronte politico dell’inchiesta mentre i miliziani da Napoli si battono, con sprezzo del pericolo, contro i corrotti. “Se non disturbi il potere politico, fai carriera”, dichiara Scafarto. Sarà come dice lui, nel frattempo sembra giunto il momento che lo stesso Scafarto spieghi ai magistrati, e a noi tutti, perché, anche all’indomani del trasferimento di Capitano Ultimo nei ranghi dell’Aise, egli abbia continuato a trasmettere al suo ex capo atti investigativi riguardanti l’inchiesta che lambiva l’epicentro del potere politico romano. Senza il provvido intervento della procura capitolina, con Pignatone e Paolo Ielo in testa, i cittadini avrebbero creduto a una fake inchiesta basata su prove letteralmente false.