Il Procuratore della Repubblica di Catanzaro, Nicola Gratteri (Foto LaPresse)

Gratteri a ruota libera su Saviano, mafie e giustizia ingiusta

Annalisa Chirico

Il procuratore capo di Catanzaro: “Troppi processi, poche risorse. Il governo che difende il condono fa passare l’idea che le regole esistano per essere bypassate”

Roma. “C’è uno spirito ’ndranghetista in ognuno di noi”, dice Nicola Gratteri mentre sorseggia un succo di melograno. “Ha una pistola addosso?”, gli domando. “Adesso non ho armi con me, gli uomini che vede agli angoli della sala sì”. Procuratore capo di Catanzaro dall’aprile 2016, Gratteri è tra i massimi esperti di mafia calabrese, l’organizzazione criminale più ricca e potente, leader mondiale nel traffico della droga. Si autodefinisce un “infiltrato in magistratura”, mai iscritto a correnti, all’interno della burocrazia togata il suo è il profilo del battitore libero.  

 

“Se vuoi fare carriera, l’attivismo correntizio aiuta, un centro d’influenza esterno che ti appoggia pure aiuta… Io ho sempre applicato il metodo delle dodici ore, la quantità di tempo che spendo ogni giorno in ufficio”. Eppure lei, procuratore, è tra i più mediatici. “I magistrati devono partecipare al dibattito pubblico, purché non parlino d’inchieste in corso”. Ha fatto discutere la sua proposta di smantellare la direzione investigativa antimafia, la creatura di Giovanni Falcone. Il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho è contrario. “La Dia non ha avuto il successo sperato, la verità è che tutti cercano di tirare per la giacchetta Falcone come se servisse per forza un padre nobile per perorare una causa. Io propongo di restituire gli agenti ai rispettivi corpi d’appartenenza per far fronte ai vuoti di organico. Lo stato non ha i soldi per nuovi concorsi, e se passa ‘quota 100’ ci saranno buchi di 20 mila persone. Perché non viene evocato così spesso pure Paolo Borsellino? Lui era un integralista vero”.

 

Lei adora questa parola, integralista. “Io non sono per i se e per i ma, non sono per le sfumature”. “Integralista” evoca il jihad. “L’integralista islamico, esatto. Pure lo ’ndranghetista è integralista”. C’è qualcosa di ammirevole? “Tutti dovremmo possedere una dote: la determinazione. Lo ’ndranghetista compie scelte di campo nette. Per il resto, è un parassita che vive alle spalle di chi lavora, un vigliacco che ti bacia, ti abbraccia e poi ti spara alle spalle”. Lei è sotto scorta dal 1989. “Ero entrato in servizio da appena tre anni, come giudice istruttore nel circondario di Locri. Una delle mie prime inchieste provocò l’arresto di un esponente socialista, all’epoca vicepresidente della giunta regionale calabrese. Un giorno qualcuno sparò alla porta dell’abitazione della mia fidanzata, a stretto giro le fu recapitato un messaggio: voi sposate un uomo morto”. La ragazza la mollò in tronco. “È diventata mia moglie”.

 

Il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha annunciato un giro di vite sui 585 dispositivi di protezione. Roberto Saviano l’ha tacciato di essere un “fastidioso parassita”. “La scorta non è uno status symbol, chi se ne avvale deve usare rispetto. Quando vedo certi personaggi scortati che ogni sera vanno a cena fuori, e poi si concedono i dopocena, e poi vanno al cinema e allo stadio, mi domando se non abbiano paura. Io non percorro dieci metri senza scorta, non faccio un bagno al mare da quindici anni, in campagna guido il trattore circondato dagli agenti. Vivo in un Grande fratello permanente dove la privacy non esiste. Se devo incontrare qualcuno, preparo un’insalata di pomodori a casa”. Salvini fa bene a proporre una razionalizzazione? “Le scorte sono troppe. Chi esce tranquillo ogni santa sera, può farne anche a meno”.

 

Il discrimine è la paura? “Ha paura chi ha fatto qualcosa. Non basta essere pm per rischiare la vita: per un locale di ’ndrangheta, l’unità base, quattro morti l’anno sono un costo fisiologico. Tu rischi se fai un’indagine che azzera un’intera famiglia o se giochi con due mazzi di carte”. La ’ndrangheta oggi è la mafia più potente nel mondo. “Molti magistrati lo ignorano. Nel mondo occidentale è la meglio organizzata per due motivi: il vincolo di sangue e l’osservanza rigorosa delle regole. Il legame di parentela è il cemento di una struttura solida. Un locale si compone di due o tre famiglie patriarcali; il giovane attendente che svolge il tirocinio deve imparare a eseguire senza porre domande. Se gli ordinano di ammazzare e lui chiede il perché viene immediatamente scartato. A differenza della camorra, tenuta in vita più dai media che dai camorristi, la ‘ndrangheta è forte perché esige il rispetto assoluto delle regole”.

 

Nel lessico gratteriano Mafia capitale, quella romana, bocciata in primo grado e resuscitata in appello, rientra nel 416bis? “La sentenza di secondo grado mi sembra una forzatura giuridica. Non si è mai vista una mafia che scompare con l’arresto dei capi. Per intenderci: la ’ndrangheta ha un codice e un tribunale dove si celebrano i processi in un unico grado di giudizio: in questa sede compaiono il difensore, la cosiddetta ‘mamma di carità’, e il pm, avvocato dell’accusa; si producono prove a carico e all’esito del dibattimento viene emesso un verdetto immediatamente esecutivo”. E’ il suo mondo ideale. “Io non rinuncerei mai ai tre gradi di giudizio, ma vorrei un sistema fondato sul rispetto assoluto delle regole”. La camorra gode di maggiore appeal mediatico, ci vorrebbe un Saviano calabrese. “Anche no. E’ importante però che gli organi d’informazione prestino attenzione a ciò che accade. I professionisti dell’antimafia esistono, non da ora. Bisogna essere coerenti con se stessi, con ciò che si predica e ciò che si fa”.

 

Matteo Renzi sognava per lei il dicastero di via Arenula ma l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano si oppose. “Non ho mai conosciuto Napolitano. È stato mal consigliato”. Forse un magistrato a capo del ministero della Giustizia non è una buona idea. “Un professore universitario non può forse essere un buon ministro dell’Istruzione? E un generale dell’esercito non può guidare il ministero della Difesa? Sulle prime, essendo io un decisionista poco allenato alla mediazione, manifestai a Renzi la mia titubanza; alla fine mi convinse. Quando appresi che il colloquio si protraeva oltre il previsto, dissi ai miei: stanno litigando sul mio nome”. Da Palazzo Chigi Renzi la nominò a capo di una commissione incaricata di riformare la legislazione antimafia. “Posi due condizioni: nessuna remunerazione e piena libertà nella designazione dei tredici componenti. Al termine di un lavoro durato sei mesi, la commissione produsse un articolato di legge incentrato su modifiche banali, di superficie, eppure rivoluzionarie. Seguendo due precetti: guai ad abbassare il livello di garanzie a tutela di indagato e imputato; l’impegno a rendere non conveniente delinquere. Le mafie si potrebbero così abbattere dell’80 per cento”.

 

La sua è un’affermazione pesante. “Il processo a distanza lo abbiamo proposto noi. Ogni anno lo stato spende 70 milioni di euro in traduzione e trasferimento detenuti, ogni giorno un agente penitenziario su quattro è impiegato a tale scopo. Diecimila uomini vengono sottratti al trattamento rieducativo dei condannati, per non parlare del rischio di evasione e della possibilità che il detenuto, durante l’udienza, mandi all’esterno messaggi di morte e richieste estorsive. Oggi Tizio, detenuto a Tolmezzo ma imputato in un processo a Catania, può restare lì dove si trova grazie a quattro telecamere del costo di 80 euro ciascuna”. I tribunali non sono allestiti all’uopo. “La questione organizzativa è fondamentale. Lei comprende quali cambiamenti sarebbero attuabili partendo da piccole azioni”.

 

Il governo ha approvato il blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, in vigore dal 2020. “Fin quando parole come prescrizione, condono, indulto e amnistia avranno cittadinanza, non potremo ritenerci un paese civile. Italiani brava gente, una mano lava l’altra... con questo approccio l’Italia si conferma un posto di mezzi faccendieri. Per fare pulizia, serve integralismo. O bianco o nero: se sbagli paghi, e fino in fondo. Quanto alla prescrizione, i processi vanno celebrati in tempi ragionevoli, come dice la Costituzione. Oggigiorno camminano soltanto i procedimenti per criminalità organizzata. Quelli per reati comuni e contro la pubblica amministrazione, senza detenuti, passano in coda, si fanno nei ritagli di tempo. Chi ha commesso reati di criminalità comune non può farla franca per il decorso del tempo”. Lei descrive un sistema alla bancarotta. “Troppi processi, poche risorse. Il governo che difende l’ennesimo condono non aiuta perché fa passare l’idea che le regole esistano per essere bypassate, alla fine tutto si aggiusta. Tale atteggiamento ha prodotto uno scadimento morale, anche nei ranghi della magistratura”.

 

Il primato morale delle toghe è un’idiozia? “Non siamo marziani, tra noi esistono corrotti e collusi. Quando un magistrato delinque, il fatto è più grave perché intacca la credibilità dell’intera categoria”. Tornando alla prescrizione, i governi intervengono regolarmente sui termini anziché affrontare i nodi strutturali che rendono i processi italiani tra i più lenti d’Europa. “L’attuale governo non fa eccezione: interviene a valle, non a monte. Il blocco della prescrizione è una toppa. I processi senza detenuti durano anni perché il trasferimento di un solo giudice obbliga a ricominciare daccapo, e i quaranta testimoni già sentiti andranno nuovamente escussi. La videoregistrazione del teste consentirebbe un abbattimento di tempi e costi. Si potrebbero ottenere risultati straordinari applicando la tecnologia al codice. Ogni giorno 4 mila carabinieri, anziché stare con le cuffie a sentire le intercettazioni, vanno in giro nelle vesti di messi notificatori. Nel 2018 ogni cittadino, al compimento del diciottesimo anno d’età, dovrebbe dotarsi di un indirizzo di posta elettronica certificata. Se indigente, gliela paga lo stato; se possiede un telefonino da settecento euro, se la paga da solo”.

 

In procura, in effetti, si accumulano montagne di carta. “Noi eseguiamo numerosi arresti, perché serve. Ogni volta che un procuratore annuncia cinquecento arresti per narcotraffico, vuol dire che ha firmato altrettante ordinanze di custodia cautelare, ciascuna consta di migliaia di pagine. Questo giochino costa tra i trenta e i quarantamila euro: toner, fogli e cinque carabinieri distolti dal mestiere per cui hanno vinto il concorso e costretti a svolgere l’ingrato compito di fotocopiatori”. Con il rischio poi che le fotocopie circolino… “Glielo dico per esperienza: nessuna notizia esce senza il silenzio, o quantomeno il silenzio assenso, del magistrato. L’ufficiale di polizia giudiziaria non si arrischia. Se ogni atto fosse scaricabile in formato digitale su un tablet nelle disponibilità del detenuto e impostato per la sola ricezione, si risparmierebbero tempo e carta. Man mano che il procedimento avanza, sull’apparecchio elettronico verrebbero caricati gli atti relativi all’intera vicenda processuale del cittadino fino all’uscita dal carcere”.

 

Nel civile il processo telematico è realtà, il penale resta il regno della carta. “Molti di noi oppongono resistenza. Il fatto è che bisogna andare avanti, non indietro. Io ho iniziato la carriera di giudice istruttore con il vecchio codice. Il rito accusatorio offre maggiori garanzie, il problema è che si anticipa sempre di più la presenza della difesa nella fase delle indagini preliminari. Io sono per il massimo delle garanzie, sono contro uno schiaffo in carcere”. Due terzi dei reclusi rispondono di reati di droga, molti tra loro hanno problemi di tossicodipendenza. “Quando posso, mi metto in ferie e visito i centri per tossicodipendenti. Ogni volta ne esco più convinto che gli stupefacenti non vadano legalizzati”.

 

Non la pensa così l’ex procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, almeno per le droghe leggere. “In questi centri la gente mi dice: procuratore, siamo partiti tutti dalla marijuana. Secondo i fautori della legalizzazione, si allontanerebbero i giovani dalla criminalità organizzata e le forze dell’ordine sarebbero impiegate in indagini più rilevanti. Ma se non legalizzo pure cocaina, eroina ed ecstasy, gli agenti dovranno comunque presidiare le piazze di spaccio. E poi le mafie non subirebbero una batosta economica: soltanto cinque tossicodipendenti su cento dipendono da marijuana, almeno ottanta da cocaina. La prima costa cinque euro per grammo, la seconda cinquanta. Secondo le stime più accreditate, un grammo di marijuana in farmacia costerebbe dodici euro. Se nel mercato nero posso comprarla a un terzo del prezzo, perché dovrei pagarla di più? Io sono favorevole all’uso della cannabis soltanto a scopo terapeutico. I malati che soffrono vanno aiutati”.

 

Mafia e corruzione: qual è la vera “emergenza”? “Non vedo differenza. Negli ultimi vent’anni il mondo occidentale ha vissuto un tracollo morale. Le multinazionali hanno educato al consumo e all’omologazione, si bada solo all’avere e non all’essere. Oggi la gente è disposta ad apporre una firma dove non dovrebbe per cinquemila euro. La mafia spara di rado perché corrompere è meno dispendioso e fa meno rumore”. Il suo è integralismo morale, non solo giudiziario. “Io ci metto la passione in questo mestiere, mi emoziono ancora”. Il prezzo che paga è la libertà. “Nulla è gratis. Quando sarò in pensione, tra dieci anni, potrò concedermi un giro in moto. Sogno di guidare il trattore da solo, in mezzo ai campi, senza gli occhi degli agenti puntati addosso. Fino a quel giorno, esiste il mio lavoro e basta: io in Calabria sto facendo la guerra”.

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