Foto LaPresse

Così le favole sulla riforma del processo penale hanno già sconfitto i fatti

Francesco Petrelli*

Il ministro Bonafede ha ribadito che la legge delega elaborata dalla sua misteriosa task-force sarà pronta entro il prossimo mese. Ma si tratta di un gigantesco bluff che mette a repentaglio l’intero sistema

Questa inaugurazione dell’anno giudiziario apre una fase assai delicata per la nostra giustizia. Come aveva già promesso al Parlamento, il ministro Alfonso Bonafede ha infatti ribadito che entro il prossimo mese la legge delega per la riforma del processo penale, elaborata dalla sua misteriosa task-force, sarà pronta. Pesa ora sulla giustizia del paese un’ipoteca fatale. Indifferente ai moniti che vengono dal vertice degli ermellini, questo ministro punta tutto sulla abolizione della prescrizione. D’altronde così ha voluto la vulgata del diritto penale popolare: la prescrizione è diventata il male assoluto. Pietra dello scandalo sulla quale far sedere i bancarottieri del diritto, gli azzeccagarbugli e i parafangari che difendono gli imputati dal processo, favorendo pretestuose impugnazioni. Tutto il male discende di lì, da quella perversa regola obliterante. Estirpato quel verme diabolico dal ventre processuale, tutto tornerà a funzionare splendidamente e la giustizia trionferà.

 

Che si trattasse soltanto di una favola è parso subito chiaro ad ogni persona dotata di buon senso e un minimo avveduta di cose processuali. Una volta liberata, infatti, da quell’unico vero stimolo a far presto, la nostra affannata ed arrancante macchina giudiziaria si fermerà inevitabilmente ed i tempi del processo tenderanno da qui all’infinito. Ma questo estemporaneo intervento legislativo, improntato esclusivamente a una logica giuridica illusionistica, non solo si scontra pericolosamente con il principio di realtà, ma disvela al pur minimo approfondimento la sua cinica natura fraudolenta. 

 

L’emendamento del ministro al decreto Anticorruzione contiene infatti in sé quella che potremmo generosamente definire una incongruenza. Abolire, infatti, la prescrizione dopo la sentenza di primo grado e dunque proprio con riferimento alla fase delle impugnazioni in cui statisticamente l’istituto pesa meno, senza incidere in alcun modo sulla precedente fase dell’indagine che costituisce il vero buco nero delle estinzioni per prescrizione per oltre il 60 per cento dei processi, risulta del tutto irrazionale. E lo sarebbe se non fosse che dietro questo improvvido intervento riformatore non si nascondesse, al contrario, una chiara volontà di spostare l’asse del processo penale sulla fase delle indagini e sul primo giudizio, svalutando le impugnazioni che vengono così a svaporare in una sorta di dissolvenza incrociata. Tutti i riflessi negativi della condanna restano così congelati in un limbo nel quale affondano vicende esistenziali, carriere politiche e lavorative, patrimoni, immagini pubbliche, attese risarcitorie delle parti civili ed aspettative sociali.

 

Quella degli imputati “per sempre” anche se assolti in primo grado e appellati dalle procure, appare davvero una riforma lanciata contromano sull’autostrada del diritto penale moderno e liberale. Sappiamo poi come è andata: sospinto dalla levata di scudi dell’avvocatura e dell’intero mondo accademico, qualcuno dell’entourage governativo ha fatto riflettere i fautori del blitz emendativo. Convincendo della avventatezza di una riforma della prescrizione che non tenga conto dell’intero sistema. Bisogna riformare il processo – si è, dunque, proclamato - e far si che proceda speditamente in ogni sua fase e grado, anche senza più lo stimolo di quel perverso istituto che trasforma il processo penale in malaffare.

 

Una idea ovviamente condivisibile che passa, tuttavia, attraverso una “semplificazione” ed uno “snellimento” del processo che non si risolvano in un abbattimento delle garanzie processuali, ed attraverso una riduzione del numero dei processi, che implica anche una differente visione della giustizia penale ed una accoglimento delle teorie del diritto penale minimo e della riserva di codice. E, non da ultimo, se si vuole essere seri, attraverso una profonda riforma ordinamentale delle carriere.

 

Tutte cose per le quali ci si batte da lustri, senza che si sia riusciti a superare, né le oggettive difficoltà tecniche e politiche di simili riforme, né gli sbarramenti ideologici e le contrapposte visioni autoritarie spesso manifestate dalla magistratura associata. Non si tratta, dunque, di una prospettiva innovativa e geniale che nessun governo e nessun giurista aveva mai pensato di coltivare. Ma di un disegno organico di difficile tratteggio e di un percorso riformatore che solo una mano competente e diffidente di facili slogan mediatici, consapevole e tecnicamente avveduta può pensare di percorrere. Compito assai sofisticato che appare francamente inadeguato per una task-force che tradisce già nel suo nome di matrice bellica un preoccupante accento demolitorio. Ed è per questo motivo che diffidiamo di poter veder sfrecciare questo processo ad alta velocità, per il quale nessun calcolo costi e benefici è stato tuttavia ipotizzato.

 

Non sappiamo, infatti, su quali dispositivi formidabili e su quali immaginifici strumenti si fonderà quella riforma. Sappiamo però che sarà velocissima anch’essa: riforma della prescrizione e nuovo processo veloce verranno assieme alla luce al termine dell’anno in corso. Si tratterà di un parto gemellare prodigioso. E’ a questa fatale scommessa, quella di poter compensare il disastro annunciato del processo senza prescrizione, che sono dunque appesi i destini della nostra giustizia. Una scommessa in cui nessuno crede, perché nata da un reciproco inganno delle forze di governo. Un gigantesco bluff giocato sulle spalle del Paese che mette a repentaglio l’intero sistema della giustizia penale. Piuttosto orientati a credere che quel treno veloce sia del tutto indifferente ai diritti di libertà e alle garanzie processuali di chi suo malgrado intraprenda quel viaggio, pur di giungere ad ogni costo ad una qualche stazione. Ed è dunque sul senso più profondo di questa ostentata e insensata ordalìa, che dobbiamo riflettere alla vigilia di questo nuova stagione di riforme. Dando fondo al pessimismo della ragione.

 

Se, infatti, il principio di realtà fosse più forte delle favole, dei luoghi comuni, delle parole d’ordine insufflate dai capisocial, tutto questo non avrebbe avuto neppure inizio. E non è dunque realistico pensare che i fatti dovranno necessariamente piegare queste fantasie. I fatti hanno già perso quando sono diventati story-telling. La ricostruzione è un opera di civilizzazione di quegli enormi spazi lasciati liberi dalla insensatezza del loro racconto. Perché i fatti da soli non bastano ed è proprio la narrazione dei fatti che ne ha sancito la fine. Ricostruire la giustizia penale significa dunque saper anche svelare la falsità delle narrazioni e la funzione realistica dei fatti. La loro profonda connessione con la verità. Denunciare la natura opportunistica del giustizialismo, che non impegna moralmente chi lo predica, e la virtù sociale del garantismo, che pone chi lo pratica ogni volta davanti a scelte coraggiose. Se è vero che “sette italiani su dieci pensano che il sistema non garantisca la tutela dei diritti”, occorre chiedersi a quale diversa o distorta narrazione appartengano quei cittadini che plaudono alla riforma della giustizia del ministro Bonafede. Comprendere e sciogliere questo nodo è un lavoro difficile che ci sfida tutti, operatori della giustizia, avvocati e giuristi, assieme alla politica e all’informazione, a rifondare assieme la grammatica dei fatti ed a riscrivere l’alfabeto della giustizia.

 

*Francesco Petrelli, già segretario dell’Unione camere penali italiane

Di più su questi argomenti: