Al processo Vannini va in scena l'ennesimo show in salsa giustizialista
La Corte d'assise derubrica il reato a carico del padre della fidanzata del ragazzo da omicidio volontario a colposo. In Aula e sui social esplode la rabbia degli indignati, anche quella del sindaco di Cerveteri
In un paese dominato da un’ignoranza diffusa in materia giuridica e dai risentimenti giustizialisti, era quasi impensabile attendersi una reazione diversa dallo sdegno generato dopo la sentenza della Corte d’assise d’appello di Roma sull’omicidio di Marco Vannini. Il ragazzo ventenne di Cerveteri è morto il 18 maggio 2015 a Ladispoli dopo essere stato raggiunto da un colpo di arma da fuoco sparato da Antonio Ciontoli, padre della fidanzata del giovane e sottoufficiale della Marina militare. Una vicenda oggetto fin dall’inizio di un particolare trattamento mediatico, anzi di uno “show” fatto di rivelazioni scandalistiche sui rapporti tra Vannini e i componenti della famiglia Ciontoli (presenti in casa durante l’incidente e accusati di non aver prestato adeguato soccorso al ragazzo), di dibattiti in prima serata tra criminologi, giornalisti e presunti esperti sul merito delle indagini e del processo (da “Chi l’ha visto” a “Quarto grado”), persino della diffusione di intercettazioni ambientali tra alcuni indagati prima dell’interrogatorio dei pm, insomma della sollecitazione perenne degli istinti più indignati e forcaioli dei telespettatori attorno a una vicenda delicatissima e dalle dinamiche ancora tutte da chiarire.
Ieri i giudici della Corte d’assise d’appello della Capitale hanno ridotto in secondo grado la condanna nei confronti di Antonio Ciontoli da 14 a 5 anni, derubricando l’imputazione da omicidio volontario con dolo eventuale a omicidio colposo. Gli stessi giudici hanno confermato la pena a tre anni di reclusione per il resto della famiglia (la moglie Maria, la figlia e fidanzata della vittima Marina e l’altro figlio Federico), sempre per omicidio colposo. Alla lettura della sentenza si è scatenata la protesta di parenti e amici di Marco Vannini: “Vergogna!”, “E’ uno schifo!”, “Avete preso i soldi!”, si è sentito gridare in aula. “E’ una cosa vergognosa – ha gridato in lacrime Marina Conte, la madre della vittima – E’ uno schifo. La giustizia non è uguale per tutti”. C’è persino chi ha strappato tessere elettorali, mentre sui social network è partita la carica dei centinaia boia da tastiera (“Solo cinque anni?! L’ergastolo, anzi un bel colpo in testa ci vorrebbe”, si legge su Facebook, oltre agli immancabili insulti).
Una scena che è diventata una costante nelle cronache giudiziarie del paese. Basterebbe pensare al caso più recente, lontano solo due settimane, della sentenza sulla tragedia del bus precipitato ad Avellino. Senza dimenticare che identiche proteste si erano levate un anno fa proprio alla lettura della sentenza di primo grado del caso Vannini, quando Antonio Ciontoli era stato condannato a 14 anni. “Solo 14 anni?”, si chiesero indignati familiari e commentatori, nonostante la non esiguità della pena.
Con la decisione di ieri, la Corte d’assise d’appello ha riqualificato il capo di imputazione nei confronti di Ciontoli e ha inflitto la pena massima prevista dal nostro codice penale per l'omicidio colposo (5 anni di reclusione). Una distinzione, rispetto all'omicidio volontario che si basa su una differente e complessa valutazione della condotta tenuta da Ciontoli nei momenti in cui avvenne l’incidente, con particolare riferimento alla fase di allerta dei soccorsi (si ricorderanno le confuse telefonate al 118). Una valutazione che chiama in causa anche il delicato esame di meccanismi psicologici intervenuti nella mente dell’imputato in quei momenti, soprattutto sulla cosiddetta “accettazione” del rischio che il ragazzo potesse morire in conseguenza delle proprie azioni. Occorrerà attendere il deposito delle motivazioni per comprendere a pieno su quali aspetti si sia concentrata la differente valutazione dei giudici di appello. L’importante, per ora, sarebbe prendere atto che si è di fronte a una vicenda di estrema complessità, che persino l’accusa, nella persona del procuratore generale Vincenzo Saveriano, non ha esitato a definire “un unicum nel panorama giurisprudenziale in tema di qualificazione giuridica del fatto”. E chissà quanti tra coloro che ora esprimono la propria indignazione per la sentenza saprebbero distinguere, anche solo in termini generali, l’omicidio volontario da quello colposo, il dolo eventuale dalla colpa cosciente.
Basterebbe questo a suggerire maggiore prudenza nel commentare la decisione dei giudici (peraltro ancora priva di motivazioni), con tutte le difficoltà del caso in un paese cresciuto negli ultimi 25 anni a pane e giustizialismo, spesso serviti a tavola persino da rappresentanti politici e istituzionali (il salviniano “Deve marcire in galera” è solo l’ultimo piatto inserito nel menù).
A perdere completamente ogni senso della misura è stato, anche in questo caso, proprio un rappresentante delle istituzioni, cioè Alesso Pascucci, il sindaco della città di cui era originario il ragazzo ucciso, Cerveteri: “Uno Stato che consente di uccidere un suo ragazzo senza che di fatto i suoi assassini vengano puniti non è uno Stato di diritto ma è uno Stato in cui la giustizia oramai è morta e le istituzioni non sono più un riferimento credibile per i cittadini”, ha dichiarato Pascucci dopo la sentenza della Corte. Il sindaco ha anche affermato di provare “un senso di vergogna nell’indossare la fascia tricolore in rappresentanza di uno Stato che non tutela i cittadini e che lascia impuniti gli assassini di Marco”, e per questo “metterò le bandiere della nostra città a lutto e invito i sindaci di tutta Italia a farlo in rispetto di Marco Vannini e dei tantissimi che come lui hanno perso la vita senza che lo Stato italiano gli riconoscesse giustizia”. L’ennesimo esempio di un uso propagandistico e populista della giustizia, in cui si scambiano alleggerimenti di pena per assoluzioni e, pur di ottenere un pugno di consensi in più, non si esita a esasperare gli animi dell’opinione pubblica, già di per sé piuttosto movimentati. Con una beffa ulteriore, cioè quella di farlo mentre si riveste un ruolo pubblico, si indossa una fascia tricolore e si evoca nientedimeno che lo “Stato di diritto”.