“Incredibile sciatteria”. Quattro anni di un'inchiesta antiscientifica sulla Xylella
Il tribunale di Lecce archivia tutte le accuse nei confronti dei dieci funzionari e ricercatori indagati per la diffusione del batterio. E non poteva andare a finire diversamente
Roma. Negligenza, pressappochismo, ritardi, omissioni, falsità e incredibile sciatteria. Sono i termini utilizzati nel decreto di archiviazione per descrivere l’attività dei dieci funzionari e ricercatori indagati dalla procura di Lecce per la diffusione della Xylella. Ma in realtà quegli stessi termini sono più appropriati per descrivere l’attività investigativa, che attraverso il sequestro degli ulivi ha impedito l’attuazione del piano di contenimento del patogeno e di conseguenza la diffusione di una malattia letale per l’olivicoltura pugliese e italiana. Sul Foglio, oltre quattro anni fa, avevamo definito questa vicenda “Storia della Xylella infame” perché, proprio come il racconto manzoniano sulla peste, l’attacco giudiziario ai ricercatori aveva le caratteristiche di una caccia agli untori basata su pregiudizi e superstizione.
Ora, dopo 4 anni di indagine, su richiesta della stessa procura, il tribunale di Lecce fa l’unica cosa possibile: archivia tutte le accuse (diffusione colposa di malattia delle piante, inquinamento ambientale, falso materiale e ideologico in atti pubblici, getto pericoloso di cose, distruzione o deturpamento di bellezze naturali). Questo per la parte giudiziaria, e non poteva essere altrimenti tanto le prove erano inesistenti e le accuse erano campate in aria. Perché in realtà il decreto di archiviazione fornisce tanto materiale fangoso da lanciare addosso ai ricercatori prosciolti nel processo mediatico. Il loro comportamento sarebbe stato caratterizzato da falsità, negligenza, sciatteria, eccetera. E’ come se la sentenza non sia servita tanto ad assolvere gli indagati, ma gli inquirenti da un’inchiesta che non ha trovato alcun reato ma ha prodotto molti danni all’agricoltura e all’ecosistema pugliese.
Innanzitutto l’archiviazione, come l’iniziale decreto di sequestro, è fondato su un’enorme contraddizione logica: da un lato accusa i ricercatori per “l’incredibile ritardo” nell’affrontare il disseccamento degli ulivi e dall’altro continua a mettere in dubbio che sia la Xylella a causare la malattia. E allo stesso tempo si dice che c’era bisogno di interventi drastici prima e per questo motivo blocca l’attuazione del piano di emergenza.
Tutta l’inchiesta condotta dai pm Elsa Valeria Mignone e Roberta Licci, dal suo avvio fino alla conclusione, non sembra avere alcuna coerenza. Ad esempio inizialmente il piano di emergenza, che prevedeva l’abbattimento degli ulivi infetti nella zona di espansione, era stato bloccato perché si ipotizzava che la Xylella in Salento c’è sempre stata. La procura ipotizzava la presenza di “perlomeno nove” ceppi di Xylella, contrariamente a quanto ha sempre affermato la comunità scientifica. Di questa ipotesi non c’è più traccia. Come non c’è traccia delle teorie scientifiche dell’ex procuratore Cataldo Motta, che ha coordinato l’inchiesta, che diceva che le piante stavano guarendo: basta una potatura e dare tanta acqua.
A proposito di pressappochismo. Nel decreto di archiviazione, i magistrati parlano di una “sperimentazione in campo” con ceppi di Xylella importati dall’estero fatta dai ricercatori. Una falsità. E a proposito di sciatteria, i pm per continuare a negare il nesso di causalità tra Xylella e disseccamento degli ulivi si affidano a un articolo di un “prof.”, che però non è un professore, che parla di biologia ma è un “astrofisico” e di cui sbagliano anche il cognome. Infine, per avvalorare l’inutilità del piano di contenimento, i pm attribuiscono una dichiarazione contro gli abbattimenti al prof. americano Alexander Purcell, che già quattro anni fa sul Foglio avevamo dimostrato essere falsa. Non era dell’eminente studioso di Xylella, ma una dichiarazione a lui attribuita da una parlamentare del M5s. Una frase talmente falsa che è stata negata dallo stesso Purcell.
“Incredibile sciatteria”, è ciò che i magistrati attribuiscono ai ricercatori. Ma in realtà è la descrizione perfetta del modus operandi in questa inchiesta, dall’inizio all’epilogo. E’ vero che si è conclusa con un’archiviazione (e non poteva essere altrimenti), ma in quattro anni ha prodotto un sacco di danni per gli indagati e per la collettività.