Aiuto, è impazzita la giustizia
Pizzini, accuse. La successione alla procura di Roma si trasforma in una clamorosa guerra tra bande della magistratura e mostra in un solo colpo la pericolosità delle correnti, la decomposizione del Csm e il guaio di avere una politica debole e sottomessa ai pm
Quando la politica diventa debole, la magistratura diventa forte. Quando la politica sparisce, la magistratura diventa dominante. E quando la magistratura diventa dominante, il circo mediatico diventa centrale, gli scazzi tra le correnti finiscono sulle prime pagine dei giornali, gli schizzi di fango vengono offerti ai cronisti di riferimento e capita quello che avrete certamente visto nella giornata di ieri. Capita, cioè, che la successione alla guida di una delle procure più importanti d’Italia, quella di Roma, si trasformi in una guerra tra fronti della magistratura e capita che a colpi di indagini, di esposti, di soffiate e accuse al centro del processo mediatico finisca l’organo che per Costituzione avrebbe il compito di garantire l’autonomia e l’indipendenza della magistratura.
La storia forse la conoscete ma prima di spiegare cosa c’è dietro la scena bisogna conoscere i fatti e metterli in fila. Lo scorso 8 maggio, l’ex procuratore capo della procura di Roma, Giuseppe Pignatone, è andato in pensione per raggiunti limiti d’età. La corsa alla sua successione è stata molto combattuta: Pignatone avrebbe gradito come suo successore l’attuale procuratore capo di Palermo, Francesco Lo Voi, ma alla fine le correnti del Csm erano arrivate a una soluzione diversa, che coincideva con il profilo di Marcello Viola, attuale procuratore generale di Firenze. Ieri, due giornali non nemici di Giuseppe Pignatone, Repubblica e Corriere, hanno dato conto con rilievo di un’inchiesta per corruzione avviata dalla procura di Perugia a carico di un magistrato di nome Luca Palamara, ex presidente dell’Anm e leader di Unicost. L’inchiesta in teoria non c’entra nulla con la successione di Pignatone (Perugia indaga su un rapporto non chiaro tra il pm e un lobbista di nome Fabrizio Centofanti), ma l’indagine sparata avrà un effetto sul futuro della procura di Roma: Palamara è stato uno degli sponsor di Viola alla guida della procura di Roma, lo stesso pm è in corsa per una delle due poltrone libere da procuratore aggiunto di Roma e dare conto con rilievo dell’indagine (sulla quale la prima commissione del Csm ha detto ieri che aprirà un fascicolo) non può che aiutare il fronte politico e mediatico che tifa per una non discontinuità alla procura di Roma. Giusto o sbagliato che sia non importa. I nemici di Viola e Palamara hanno deciso di trasformare la successione alla procura di Roma in un affare da risolvere a colpi di indagini e mascariamenti. E con tempismo perfetto, sempre sui giornali di ieri, i sostenitori della discontinuità alla procura di Roma hanno offerto ai teorici della continuità a Roma schizzi di fango utili per screditare chiunque sia tentato di lavorare a una forma di continuità per il dopo Pignatone. Il Fatto quotidiano e la Verità, giornali che hanno spesso criticato l’operato della procura guidata da Pignatone specie quando al centro di alcune indagini sono finiti pezzi da novanta del grillismo e che da tempo danno voce a quella parte della magistratura che non ha mai apprezzato l’arrivo alla guida della procura di Palermo di un magistrato come Lo Voi da sempre scettico sul teorema della Trattativa stato-mafia, ieri hanno dato conto di due presunti conflitti di interesse di Giuseppe Pignatone e dell’attuale aggiunto Paolo Ielo segnalati in un esposto da un sostituto procuratore di Roma, Stefano Rocco Fava. L’accusa è che Pignatone e Ielo non si sarebbero astenuti dal lavorare a un caso al centro del quale vi era Piero Amara, un avvocato finito al centro di una serie di accuse relative a sentenze comprate al Consiglio di stato. E la ragione del conflitto di interessi sarebbe questa: sia il fratello di Pignatone (Roberto, professore associato di Diritto tributario con studio a Palermo) sia il fratello di Ielo (titolare di un suo studio associato con sede a Milano) hanno svolto attività professionali con le quali sono entrati in passato in contatto con Piero Amara. Entrambe le storie, com’è evidente, riguardano semplici accuse che non sarà facile dimostrare, ma una volta affrontato il terreno della cronaca, la scena, ciò su cui vale la pena soffermarsi è il retroscena, e gli spunti di riflessione che offre lo scontro di dimensioni mai viste tra pezzi della magistratura sono moltissimi.
Alla radice di questa storia non c’è solo l’evidenza di una guerra esplosiva tra pezzi importanti della magistratura ma c’è anche l’evidenza di qualcosa di più importante: una degenerazione delle correnti della magistratura, una logica di appartenenza alle correnti che nell’assegnazione dei ruoli apicali delle procure pesa più di ogni giudizio legato al merito, una trasformazione del Csm in un organo predisposto a garantire non l’autonomia e l’indipendenza della magistratura dagli altri poteri dello stato ma l’autonomia e l’indipendenza delle correnti su ogni altro potere dello stato. Ma la gravità della guerra tra bande non riguarda solo l’utilizzo disinvolto dello strumento del circo mediatico (al Csm, a difesa di Nino Di Matteo, estromesso dal pool stragi dal procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho dopo un’intervista disinvolta dello stesso Di Matteo a La7 sulla Trattativa, ci sarà Sebastiano Ardita, consigliere togato del Csm, di Autonomia e Indipendenza, allievo di Davigo, uno dei magistrati più amati dal grillismo) ma riguarda anche la cornice politica all’interno della quale lo scontro è maturato. La guerre nella magistratura, di solito, arrivano alla luce del sole quando la politica è debole e quando la politica sceglie di conquistare la fiducia della magistratura dando alla magistratura tutto quello che chiede. E in un anno di governo il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, oltre ad aver fatto propria l’agenda della Davigo Associati, ha lavorato per concedere alla magistratura quasi tutto quello che la magistratura chiedeva: reati più elastici, intercettazioni meno regolate, prescrizione più lunga, obbligo di pensionamenti più flessibili e ferie più generose. Quando la politica diventa debole, la magistratura diventa forte. Quando la politica sparisce, la magistratura diventa dominante. E quando la magistratura diventa dominante, e combatte battaglie di potere sulle prime pagine dei giornali, c’è da tremare – c’è da augurarsi che il presidente del Csm, ovvero il presidente della Repubblica, non resti indifferente di fronte a un paese dominato sempre di più dalla politica della forca, dalla tecnica della gogna e della strategia del mascariamento. La giustizia italiana sta esplodendo. Non è una teoria. E’ un fatto: è ora di fare presto.