Il paradigma Palamara
Storia di un pm costretto a subire il calvario che i pm disinvolti di solito infliggono ai poveri cristi
Quelli che hanno studiato dicono che dovrebbe chiamarsi sindrome di Wakefield. E il riferimento va a quel personaggio di Nathaniel Hawthorne che un giorno decide di lasciare la propria famiglia e di trasferirsi all’insaputa della moglie in un appartamento di fronte. Da lì, dalla penombra del suo nascondiglio, comincia a osservare quel che succede nella sua vecchia casa e inevitabilmente finisce per scoprire di quali crudeltà e di quali sevizie era fatta la sua vita quotidiana. La sindrome di Wakefield è la stessa nella quale in questi due giorni si sarà perso, suo malgrado, Luca Palamara, magistrato di nobile lignaggio, ex presidente dell’Associazione nazionale, ex componente del Csm e leader di Unicost, la corrente che nel firmamento dell’associazionismo delle toghe occupa per convenzione una posizione di centro.
Da un giorno all’altro, Palamara viene a sapere dai giornali che la procura di Perugia, quella competente a dirimere le questioni che possano riguardare i magistrati di Roma, lo ha iscritto nel registro degli indagati non per un abuso di ufficio o per traffico di influenze, che sono reati di fumo; ma per corruzione. Roba pesante, pesantissima. Da quel momento, Palamara si ritrova, come Wakefield, nell’appartamento di fronte, quello degli indagati. O dei perseguitati. E da lì, guardando la sua casa madre, la casa della giustizia, comincia a scoprire di che pasta sono fatti i suoi familiari, cioè i suoi colleghi, e di quali calvari sono capaci di infliggere quando decidono di inchiodare alla croce della legge un delinquente o un povero cristo.
“L’ho appreso dalla stampa”, ha esclamato Palamara quando ha saputo di essere precipitato dal paradiso dei palazzi del potere all’inferno di un’inchiesta intessuta di guai e di accuse infamanti. I pubblici ministeri di Perugia non gli hanno mandato nemmeno un avviso di garanzia. Hanno preferito sfregiarlo a mezzo stampa.
Senza alcuna riservatezza. Senza riguardi. Senza alcuna delicatezza. E lui ha cominciato a balbettare quello che abitualmente balbettano i poveri cristi: ma come è possibile pensare di me, che sono un uomo onesto e un uomo delle istituzioni, simili nefandezze? E ha chiesto di essere subito ascoltato, per dare la sua versione dei fatti, per allontanare spettri e sospetti che si addensano neri e minacciosi sull’orizzonte del suo futuro. Ma lì, nella sua casa madre, non ci sono orecchie pronte a recepire suppliche e grida di dolore. Palamara avrebbe dovuto saperlo da tempo. Ma solo ora, come Wakefield, verifica sulla propria pelle che la vecchia casa, quella che lui amava chiamare appunto la casa della giustizia, nasconde anche una stanza della tortura, torva e ferrigna, nella quale non si trova mai né il Dio dell’ascolto né il Dio della misericordia.
Gli sguardi lanciati dalla casa di fronte, quella degli indagati, gli avranno anche consentito di scoprire che, nella casa madre, quando si leva una tempesta “non ci sono mani e urla che possano fermarla”. Perché lì tutto esplode e tutto rimbomba. Infatti sono bastate appena ventiquattro ore per trasformare l’indagine iniziale – i favori che avrebbe ricevuto, al tempo in cui era membro del Csm, da un imprenditore e due lobbisti poi finiti nei guai – in una bufera capace di scoperchiare quei santuari che Palamara per una vita intera aveva magari considerato blindati e inespugnabili. L’ipotesi di corruzione aveva autorizzato i magistrati di Perugia a mettere sotto controllo i suoi telefoni. E le intercettazioni hanno rivelato un altro intrigo: come leader di Unicost, corrente molto potente tra le toghe, l’ex membro del Csm avrebbe intessuto una sua trama per la scelta del nuovo procuratore di Roma, in sostituzione di Giuseppe Pignatone, andato in pensione l’8 maggio scorso. Altri volevano Francesco Lo Voi, attuale capo della procura di Palermo; altri proponevano Giuseppe Creazzo, capo dell’ufficio del pubblico ministero di Firenze. Ma alla fine, dentro al Palazzo dei Marescialli, la maggioranza della commissione per gli incarichi direttivi – quattro voti su sei – ha deciso di proporre al plenum del Consiglio il candidato voluto insistentemente da Palamara: il procuratore generale di Firenze Marcello Viola.
Apriti cielo. Perugia non ci vede chiaro e, dopo avere ascoltato e riascoltato le intercettazioni dei colloqui avuti per imporre Viola, pianta altri chiodi sulla croce di Palamara: avrebbe combinato le cose in modo tale da guadagnarsi in un secondo round la nomina a procuratore aggiunto di Roma, al fianco di Viola. A questo punto, la tempesta diventa un tornado: la solita manina passa la notizia ai giornali e il caso Palamara esplode ai massimi livelli. Scoppia la guerra di tutti contro tutti per la conquista dell’incarico che fino all’8 maggio scorso era nelle mani di Pignatone. Magistrati contro magistrati, alleanze che si scompongono, equilibri che si frantumano; e un organo costituzionale, come il Csm, messo a ferro e fuoco dalla furia di correnti che, in quanto ad ambizioni e spregiudicatezze, hanno poco da invidiare a certi faccendieri ingrottati nella pieghe più maleodoranti della politica politicante: ci sono magistrati che fabbricano dossier, ci sono magistrati che violano il segreto di ufficio, e ci sono magistrati che passano la notizia al momento giusto e al giornale giusto perché la stampa diventi la cassa armonica dei loro progetti e delle loro faide.
Certo, Palamara sapeva già, per la sua lunga frequentazione delle stanze del potere, quali abusi e quali storture si consumano dentro alle stanze più opache dei palazzi di giustizia. Ma ora che, come Wakefield, abita nella casa dei reprobi forse è in grado di capire meglio con quanta facilità certi suoi colleghi riescono ad appiccare fuochi devastanti: basta un esposto, una soffiata, un sicofante, una delazione.
Dalla casa di fronte si può anche vedere il ritmo con il quale si muovono i fascicoli, se corrono o rallentano. O se dormono in un cassetto. E Palamara, come Wakefield, si starà pure chiedendo quale fulmine o quale vento abbia scatenato una tempesta così improvvisa e furiosa. L’inchiesta sulla presunta corruzione era stata avviata dagli uffici di Perugia già da alcuni mesi. Ed era andata avanti nel riserbo più assoluto. Certo, prima o poi i colleghi avrebbero dovuto chiamarlo per notificargli qualcosa, fosse pure un avviso di chiusura indagine. Ma tutto sarebbe avvenuto – pur senza scomodare l’odiosa teoria del cane che non mangia cane – con i toni morbidi di un collega che ha rispetto e riguardo per l’altro collega: nel giusto silenzio, nel doveroso riserbo. Invece la guerra per la procura di Roma ha di colpo accelerato i tempi, ha infiammato i campi di battaglia e ha abbattuto ogni muro di protezione. Sono squillate le trombe del furore ed è persino scattata, teatrale e mortificante, la perquisizione domiciliare, con gli agenti che hanno fatto irruzione nella sua casa, a rovistare tra i mobili e tra i materassi, a passare al setaccio ogni carta, a verbalizzare ogni dettaglio. E lui lì, impalato dall’umiliazione, a chiedersi: perché solo ora e non prima, perché?
Domande alle quali nessuno darà mai una risposta. “Ragioni di giustizia”, gli diranno con tono liquidatorio. Wakefield, che era un uomo di mondo e perciò disprezzava il mondo, ha visto da fuori tutte le miserie, gli orrori e i fantasmi che popolavano la sua casa. Prima, quando abitava ancora con la moglie, non aveva notato niente di niente: solo una insopportabile, nauseante ordinaria amministrazione.