Una riunione del Csm (foto LaPresse)

Un'idea di sorteggio per il Csm: è in gioco la libertà

Luciano Violante

Basta! Le correnti della magistratura penalizzano il merito e favoriscono i conflitti

La vicenda relativa alla magistratura romana, fermo il rispetto per le persone che appaiono coinvolte, mette in luce una questione di fondo. Come si designano ai vertici degli uffici giudiziari i magistrati che decidono della nostra reputazione, della nostra libertà e dei nostri beni? Oggi nella grande maggioranza dei casi quelle responsabilità vengono attribuite sulla base di un criterio “politico”. I magistrati eletti al Csm, 16 su 24 (i laici eletti dal Parlamento sono otto), appartengono alle correnti dell’Anm. Queste correnti si comportano come piccoli partiti. Le designazioni agli incarichi direttivi, in gran parte dei casi, vengono effettuate grazie a scambi in base ai quali ciascuna corrente offre il proprio voto a un’altra chiedendo come contropartita che l’altra voti un proprio candidato. Quando si tratta di vertici di uffici importanti, tende a prevalere il merito sull’appartenenza. Ma negli altri casi, la contrattazione è la regola. Non raramente i laici si adeguano a questo criterio ricevendo anch’essi un qualche corrispettivo sotto forma di incarichi attribuiti a magistrati graditi. Le denunce sono state molte, soprattutto dall’interno della stessa magistratura. Ma senza effetto. E non per prava volontà degli eletti. E’ il meccanismo elettorale che conduce a queste conseguenze. L’eletto risponde alla corrente di appartenenza, che in caso di comportamento “indipendente” dei propri componenti del Csm pagherà il prezzo in termini di calo dei consensi alla elezione successiva e quindi di minore possibilità di collocare i propri iscritti negli incarichi direttivi. C’è un rimedio? La commissione Affari costituzionali della Camera sta esaminando un progetto sulla separazione delle carriere. I Csm sarebbero due, uno per i giudici e l’altro per i magistrati delle procure. I due Csm sarebbero composti per metà (non due terzi) da magistrati e per metà (non un terzo) dai laici.

 

  

I magistrati sarebbero comunque in maggioranza perché del Csm dei giudici farebbe parte il presidente della Cassazione e del Csm dei magistrati delle procure (che restano indipendenti dal potere politico) farebbe parte il procuratore generale presso la Cassazione. La proposta non prevede l’elezione dei componenti dei due Csm, ma rinvia la determinazione dei criteri di “scelta” a una legge ordinaria, cioè alla volontà della maggioranza politica del momento. Propongo di prendere in considerazione un diverso modello. Si potrebbe stabilire con una legge costituzionale che dopo tre anni (nella mia idea la durata del Csm dovrebbe essere portata dagli attuali quattro a sei anni per dare la possibilità di stabilizzare le prassi e ridurre le pressioni degli elettorati) si sorteggia la metà dei componenti togati e la metà dei componenti laici. I sorteggiati decadono e si ricorre a nuove elezioni. Non si rinnova l’organo, quindi, ma si rinnovano volta per volta i singoli componenti, come per la Corte costituzionale. La pressione delle correnti sarebbe ridotta, perché con il tempo, dovendo essere eletto un solo componente, si azzererebbe il peso delle liste elettorali. Questo sistema avrebbe inoltre il vantaggio di superare la differenza di competenze iniziali tra laici e togati. Oggi i togati sanno tutto del Csm; i laici non sanno nulla e hanno bisogno di circa un anno di lavoro per apprendere i meccanismi reali che presiedono al funzionamento dell’organo di cui fanno parte; ma a quel punto la componente togata ha già preso nelle proprie mani le redini dell’organismo. La proposta all’esame della Camera prevede che sia la legge e cioè la maggioranza parlamentare del momento a stabilire “i casi e i modi” dell’esercizio dell’azione penale.

 

In una democrazia compiuta la politica penale, quali reati perseguire prioritariamente e quali lasciare scivolare verso la prescrizione, rientra nelle responsabilità dell’autorità politica e non nelle responsabilità dei procuratori della Repubblica. Oggi non è così e si tratta di un’anomalia grave. Occorrerebbe utilizzare un decreto legislativo (n.6/2016) che impegna i procuratori generali presso le Corti d’appello a inviare al procuratore generale presso la Cassazione una relazione “almeno annuale” sui criteri di esercizio dell’azione penale nei distretti di Corte d’appello. Il Parlamento dovrebbe acquisire le relazioni tramite il ministro della Giustizia e pronunciarsi su di esse impegnando il ministro a informare i procuratori generali sugli orientamenti espressi dalle Aule. Non c’è vincolo per le procure, ma una moral suasion, che non obbliga ma responsabilizza moralmente.

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