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Solo Mattarella può salvare il Csm irredimibile. La resistenza delle correnti

Salvatore Merlo

Nessuno vuole dimettersi, ma per risollevare il Consiglio superiore della magistratura si dovrebbe andare subito a elezioni. La rete del presidente della Repubblica

Roma. Praticamente al Csm non si vuole dimettere nessuno, non vogliono farlo i quattro magistrati lambiti dallo scandalo intorno alla procura di Roma i quali, pur di non dimettersi, hanno aderito alla fantasiosa invenzione giuridica dell’“autosospensione”. Ma ancor meno ci pensano i magistrati “superstiti”, quelli che non hanno partecipato alle cene e agli incontri di notte e non spuntano fuori (almeno finora) dalle antenne del famoso telefonino di Luca Palamara. Nessuno, insomma, avverte l’insostenibile imbarazzo di far parte ormai di una consiliatura sulla quale si è abbattuto uno scandalo senza precedenti che inevitabilmente cosparge tutti di un legittimo sospetto che travolge la credibilità stessa dell’organo di autogoverno in quanto tale. L’imbarazzo però lo hanno sicuramente avvertito i magistrati italiani, fra i quali, invece, predomina (nelle assemblee sezionali, negli scambi di vedute fra colleghi, nelle mailing list) l’idea che nessun provvedimento di autoriforma potrebbe essere credibile e convincente se venisse adottato da un Consiglio decimato moralmente e fisicamente e che, invece, ogni ipotesi di rinnovamento debba essere necessariamente preceduta da nuove elezioni. E debba essere materialmente realizzata da nuove figure di riferimento, capaci di proporre con credibilità tutte quelle indispensabili concrete novità normative che l’Anm è stata capace di indicare soltanto ora (quando il fradicio è uscito dalla buccia). L’altro ieri infatti l’Anm ha emanato, al termine del suo direttivo, un documento che finge di non sentire l’aria che si respira nei palazzi di giustizia. Ma si limita a chiedere le dimissioni dei magistrati lambiti dallo scandalo senza farsi carico della perdita di credibilità e autorevolezza che grava su tutto il Consiglio e su tutti i componenti togati. 

 

C’è dunque una resistenza fortissima nei vertici della magistratura organizzata. In tutte le correnti. Non solo in quella di Mi, la corrente tradizionalmente di destra, ma pure nella sinistra di Area, in quella di centro, Unicost, e nel nuovo gruppo guidato da Piercamillo Davigo (AI). “La situazione al Csm è preoccupante”, ha detto ieri Matteo Salvini.  “Sicuramente il presidente della Repubblica dirà o farà qualcosa, visto che ne è il supremo garante”. E, infatti, di fronte allo stallo intorpidito, furbesco, e un po’ ipocrita dei capi corrente della magistratura, potrebbe essere  il presidente della Repubblica a prendere  clamorose iniziative. Sergio Mattarella, a quanto risulta, per adesso attende. Applica una discreta moral suasion. Ma fino a quando potrà attendere segnali di resipiscenza istituzionale da parte dei magistrati?

 

La situazione al Csm è d’altra parte paradossale oltre che estremamente degradante per l’intera istituzione anche dal punto di vista degli effetti elettorali che deriverebbero dal mancato scioglimento del Consiglio. E, infatti, se i quattro togati lambiti dallo scandalo si dimettessero anziché “autosospendersi” provocherebbero un ribaltamento degli equilibri interni al Consiglio (e nei centri di potere correntizi), determinando l’ingresso di nuovi consiglieri ripescati dal poco nutrito novero dei cosiddetti “non eletti” che sono in totale tre e appartengono tutti alle correnti che avevano praticamente perso le ultime elezioni (Area, Unicost, AI). Per effetto delle dimissioni, ai sensi della legge istitutiva del Csm del 1958,  entrerebbero subito, nel decimato Consiglio, impoverito (sante parole) di ben cinque componenti, due magistrati del gruppo di Davigo e un magistrato del gruppo di Area, in attesa della copertura degli altri due posti, mediante elezioni suppletive. Area e davighiani potrebbero così ribaltare gli equilibri di potere dentro il Consiglio, che ancora deve completare le nomine dirigenziali in uffici importantissimi come la procura di Roma e la procura di Torino per i quali si stava già procedendo. Come ben si capisce, dunque, la situazione è complicatissima e senza precedenti. Molto più seria dei retroscena e dei veleni che si rimpallano in questi giorni alcuni quotidiani, impegnati in una strana partita di ping-pong. La matassa, complicata dalle furbe ipocrisie dei togati, è ora nelle mani del presidente della Repubblica. Che per adesso tace. Ma fino a quando?

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.