I trojan, un cortocircuito del diritto
Quel Grande Fratello privo di limiti che sacrifica i diritti sull'altare della lotta al crimine
Roma. Che lo si chiami intrusore informatico, captatore totale o cimice telematico-ambientale, un fatto è certo: il trojan fa paura. Il Toga party che ha squarciato il velo dell’ipocrisia sulle manovre correntizie è partito dall’inchiesta perugina per corruzione a carico del pm Luca Palamara, rimasto impigliato nella rete del diabolico virus. Esporsi sul tema, allo stato attuale, appare altamente sconsigliato: chi ne mette in discussione i presupposti normativi potrebbe fornire un assist alla difesa dell’inquisito eccellente. Tuttavia, i giuristi interpellati dal Foglio sollevano dubbi e perplessità sulla legittimità costituzionale della normativa che ha esteso l’uso di un mezzo investigativo, inizialmente concepito per criminalità organizzata e terrorismo, ai delitti contro la Pubblica amministrazione; inoltre, come conferma l’orientamento di diversi gip, la normativa particolare che ne disciplina l’impiego non sarebbe ancora vigente nell’ordinamento. Andiamo con ordine. Il “cavallo di Troia” è oggi lo strumento dotato della maggiore invasività investigativa, da qui il suo carattere assolutamente eccezionale.
Nello specifico, si tratta di un virus informatico che, attivato da remoto, è capace di trasformare un dispositivo elettronico, sia esso uno smartphone o un computer, in una cimice video-fonica che, come hanno stabilito le Sezioni unite della Cassazione nella sentenza Scurato del 2016, “prescinde dal riferimento al luogo, trattandosi di una intercettazione ambientale per sua natura itinerante”. Ora, il guazzabuglio normativo, all’origine dell’attuale incertezza applicativa, nasce dal fatto che un legislatore incapace di scrivere le leggi ha inserito norme attualmente vigenti in norme non ancora vigenti. Esiste infatti una disciplina particolare sul regime autorizzativo del trojan, contenuta nel decreto legislativo 216 del 2017, voluto dall’allora Guardasigilli Andrea Orlando, la cui entrata in vigore è stata posticipata al 31 luglio 2019; contestualmente, però, è intervenuta la legge n. 3 del 2019, governo gialloverde, meglio nota come “spazzacorrotti”, in vigore dallo scorso 31 gennaio, che ha ampliato l’uso del captatore informatico ai reati di corruzione. Il risultato di questo pasticcio è che i magistrati specializzati nell’anticorruzione procedono a tentoni: gli uffici del gip a volte concedono l’uso del trojan, a volte lo negano. Esiste poi un secondo punto: i colloqui captati di Palamara coinvolgono due parlamentari, Luca Lotti e Cosimo Ferri.
Si pone allora il tema dell’utilizzabilità delle suddette intercettazioni, già ampiamente squadernate dalla stampa. Il regime delle immunità parlamentari impone l’obbligo di autorizzazione preventiva per mettere sotto controllo l’utenza telefonica di un eletto. Nel caso di intercettazioni indirette, invece, come sembra essere il caso dei colloqui informali in presenza dei due esponenti dem, l’utilizzo di tali conversazioni è sempre sottoposto a una richiesta di autorizzazione successiva alla Camera di appartenenza. Un argomento, questo, che potrebbe essere sollevato dalla difesa di Palamara. “L’uso del trojan informatico, la misura più invasiva che possa essere applicata nei confronti di un soggetto, pone un evidente problema di trade-off tra efficienza investigativa e rispetto delle garanzie”, commenta conversando col Foglio l’avvocato Vittorio Manes, professore ordinario di Diritto penale all’Università di Bologna. “Già le intercettazioni telefoniche pongono problemi vertiginosi di bilanciamento, per l’indagato e per i terzi coinvolti, con libertà costituzionali (espressamente previste dall’art. 15 della Costituzione, a norma del quale libertà e segretezza di ogni forma di comunicazione sono inviolabili); e sono tutti problemi amplificati oggi dalla moltiplicazione degli strumenti di comunicazione (messaggistica, scritta e vocale, etc.).
Ma il trojan agisce come una microspia a tutti gli effetti, un grandangolo acceso a giorno sull’esistenza dell’indagato – anche sugli attimi più intimi e informali – che squaderna interi segmenti di vita appiattendo tutto, e rendendo impossibile ogni distinzione tra intenzione, emozione, allusione, progettazione, realizzazione. Quei fotogrammi convulsi vengono poi vivisezionati per profilare il ‘tipo di autore’ retrostante. Condivido le gravissime perplessità sollevate circa l’estensione dell’impiego di uno strumento concepito per i reati di mafia e terrorismo, e poi allargato a fenotipi criminosi diversi, come i reati contro la Pubblica amministrazione: con il paradosso che più s’indaga e più emerge il fenomeno, la sua percezione sociale aumenta e con essa l’allarme, che legittima in misura crescente strumenti investigativi via via più poderosi. Da tempo assistiamo a una progressiva normalizzazione di mezzi di indagine oltremodo invasivi che contrastano con i princìpi fondamentali della Costituzione, come la tutela della riservatezza, della vita privata e famigliare. Siamo tutti d’accordo sulla gravità di taluni fenomeni, e sulla necessità di contrastarli con mano ferma: ma si sta progressivamente accettando e affermando una sorta di Grande Fratello privo di limiti, che miniaturizza i diritti sull’altare della lotta al crimine, devastando esperienze personali nell’attimo stesso in cui atti di indagine, che dovrebbero essere coperti dal segreto investigativo, finiscono sui giornali. E sui giornali, come si sa, il metro di giudizio è quello del codice morale, non del codice penale. Di questo passo, il calcolo cinico dell’utilità investigativa è destinato a sacrificare le libertà fondamentali dei cittadini in un rovesciamento del modello liberale del diritto penale che dovrebbe destare allarme, e invece viene accolto con diffusa rassegnazione”.
Per il professore di Diritto costituzionale Fulco Lanchester, “l’estensione del trojan dà il senso di un sistema occhiuto, totalitario, una sorta di Grande Fratello che fa strame di alcuni capisaldi costituzionali, quali il diritto alla privacy e alla libertà di espressione”. In che senso? “Se cade la distinzione tra spazio pubblico e privato, se l’autorità giudiziaria è investita del potere di disporre una intercettazione senza delimitare l’identità dei soggetti coinvolti e il loro campo di applicazione, ciascuno di noi può avere paura di esprimersi liberamente al telefono o durante una cena o tra le mura domestiche. Può essere che le mie siano remore garantiste, o forse no. La magistratura deve essere dotata degli strumenti necessari per intervenire efficacemente contro il crimine, ma la sua azione non può essere illimitata: sarebbe un pericolo per il vivere civile”.
Per l’avvocato Fabio Pinelli, “il captatore informatico consente un’invasione senza limiti nella vita delle persone. Con il trojan si può registrare tutto della vita di una persona: parole, suoni, immagini, dati biometrici, abitudini, gusti, preferenze; esso pone, quindi, enormi problemi, etici e giuridici, quando se ne fa uso nelle indagini. Perché anche l’intimità e la riservatezza individuali sono diritti primari dei quali si deve tenere conto, se si vuole tutelare il diritto dello stato a reprimere il crimine. Non si può fare a meno, in senso generalizzato, di tali strumenti innovativi. Semplicemente, se si crea una situazione di conflitto tra diritti contrapposti di pari rango, nel senso che la tutela di uno equivale alla lesione di un altro, e viceversa, diventa necessario individuare il punto di equilibrio. E non c’è dubbio che l’equilibrio, in una materia così delicata, deve passare per il riconoscimento della legittimità dell’uso del captatore solo in via derogatoria ed eccezionale, per le situazioni di vera emergenza criminale e investigativa, rispetto alle quali qualsiasi altro strumento risulti inidoneo.
Questo punto di equilibrio è stato decisamente smarrito sia dal legislatore che dai giudici. Il legislatore, quando ha esteso l’uso di questi strumenti alle indagini di corruzione, come se l’allarme sociale di essi fosse equiparabile ai fenomeni terroristici e di criminalità organizzata, ha dimostrato la propria tendenza a far diventare regola quello che dovrebbe essere emergenza. I giudici, dal canto loro, hanno ‘dimenticato’ cosa c’è scritto nella legge. Le intercettazioni dovrebbero essere ammesse ‘solo’ quando sussistano gravi indizi di reato ed esse siano assolutamente indispensabili per la ‘prosecuzione’ delle indagini. Le intercettazioni ‘a strascico’, quelle generalizzate, quelle per ricercare notizie di reato, non sono previste. Il punto vero, dunque, è la delimitazione dei requisiti di ammissibilità delle intercettazioni, ricordandone il carattere eccezionale in uno stato liberaldemocratico; non tanto, e non solo, quello dell’utilizzo del trojan anche per i reati di corruzione”.