Salvini e i magistrati: arbitrio senza ostacoli
Il caso Csm e i magistrati come i politici di tangentopoli. Prima di riammaestrare la famosa gente ad avere fiducia nella giustizia passeranno epoche
Ho sprecato tanto fiato contro gli abusi della “percezione”, e poco ne avevo. Poi ho capito: bisogna passare dall’altra parte. Ad abuso, abuso e mezzo. Prendete la discussione, la più futile possibile, se Salvini sia fascista. Certo che non lo è, basta chiedere ai cattedratici di storia del fascismo. In compenso è, per esempio da me, un fascista percepito, e non c’è accademico che possa obiettare. Alla percezione non si comanda. Ora ho fatto una lettura ricapitolatrice della questione politica-magistratura e Csm eccetera, e domenica ho ascoltato (a Radio Radicale, dove se no?) un paio di lunghi convegni di magistrati, compreso quello da cui è uscita la nuova giunta dell’Associazione nazionale magistrati. Sono così impreparato che non ho colto le sfumature politiche e correntizie, ma quelle oratorie e psicologiche sì, e me ne sono fatto, se non un’idea, una percezione salda: che alla magistratura italiana, nel suo complesso (è anche una conseguenza della mancata distinzione fra requirenti e giudicanti) sia capitato un guaio equivalente a quello che fece fuori la politica dei partiti con la cosiddetta Tangentopoli. Penso per una volta di stare dalla parte della maggioranza: la famosa gente non guarda per il sottile, anzi sempre meno, e prima di riammaestrarla ad avere fiducia nella giustizia passeranno epoche. E i magistrati rispondono come allora i politici, come suonati da una imprevista destituzione. Il segretario uscente dell’Anm arriva all’assemblea dopo essersi dimesso – era il minimo – dalla sua corrente, Magistratura indipendente, e invece di dimettersi in apertura anche dall’Anm, dove ormai non rappresenta nessuno, aspetta i tre interventi delle tre correnti rivali che, infierendo, gli intimano di togliersi di mezzo, per togliersi di mezzo.
Sono ingenui o cosa questi che maneggiano legge e diritti e destini umani? I politici di Tangentopoli avevano un’attenuante, oltre a quella di essere i primi di una nuova èra di lesa maestà: gli imprenditori, così terrorizzati di una convocazione da Di Pietro da denunciare se stessi e i propri cari, con una preferenza per i cognati, e uscire poi coprendosi la faccia con le manette, così da mettere meglio in vista le manette. E’ stata una consolazione sentire il discorso del neoeletto presidente dell’Anm, di cui non so niente, e però aveva proprietà di parola e di pensieri e sembrava cascato dalle nuvole, che è il luogo cui guardare quando c’è da mettere una toppa, un tappo, a un’alluvione: auguri. Ma pensavo al contesto. Il contesto è quella cosa per la quale Tangentopoli avviene, toglie il fiato, provoca suicidi ed ebbrezze ed eroi sugli scudi e Craxi a Hammamet e insomma la rigenerazione universale, e finalmente il risultato: Silvio Berlusconi. Che cosa ha in grembo il contesto di oggi? Il contesto di oggi ha il nome ineluttabile di Salvini, il mio fascista percepito. Prima delle elezioni europee Salvini non vedeva ostacoli sul suo cammino, se non uno, eventuale. Per lui lavoravano di buzzo buono i 5 stelle di Di Maio, che dopo avergli regalato una buona metà del suo patrimonio si affanna oggi a svuotarsi le tasche degli ultimi spiccioli; e il pubblico, entusiasta in una sua quota ingente – medio-piccolo il raccapriccio, ingentissima l’astensione – di veder consacrati i propri sentimenti e pensieri i più sconci, una liberazione!, altro che il 25 aprile. Il piccolo ostacolo sulla via dei fori imperiali di Salvini era proverbialmente la magistratura, la quale dava generosi segni di servilismo, ma anche dignitosi segni di renitenza: ad Agrigento, in mezza Catania, e qua e là nella penisola, che la longeva Lega ha disseminato di mine giudiziarie da rateizzare. Il caso Siri fu l’allarme più vistoso, al punto che anche il pusillo Di Maio si figurò per un momento che potesse risollevarlo dal tappeto, e ci giocò la sua campagna intrepida, su quello e sulla bazzecola dell’abuso d’ufficio. Salvini, senza bisogno di essere ammonito da consulenti legali, seppe di avere quel fianco esposto e dopo aver proclamato di combattere e procombere solo lui in tribunale, invocò dal gerarca minimo Di Maio l’immunità dalla Diciotti, nome da codice penale, e l’ebbe su un vassoio d’argento. Dopo il risultato elettorale Salvini ha visto davanti a sé una prateria, come si dice, e doveva solo scegliere a che passo percorrerla. Restava quell’ostacolo proverbiale, nel bene e nel male, di ogni impresa pubblica e privata, la magistratura, ma i voti ora lo persuadevano di poter alzare di molto il tono già scostumato della sua sfida: provate a toccarmi, io sono sessanta milioni. La pseudo-Evita, almeno, non aveva precisato la cifra: volveré, y seré millones, aveva detto sobriamente. Ed ecco che la magistratura – generalizzo, è così che funziona la percezione – provvede a mettere la testa in un sacchetto di plastica, ma largo abbastanza da contenere anche, se non la testa, qualche pezzo di Pd: una pacchia, per il regime leghista. Perfino un ladruncolo di albicocche oggi protesterebbe all’idea che questa magistratura voglia giudicare di lui. Parentesi: ho un conto impagabile con la giustizia, da lei, e tuttavia serbo una convinzione e un sentimento pressoché sacro del compito di chi le è vocato. Questo è comunque l’orizzonte che vedo al futuro prossimo dell’Italia. L’arbitrio senza ostacoli, o quasi. Salvo che qualcuno, molti, si ricordino di essere liberi e forti.
Vorrei rendere più chiaro di che cosa stiamo parlando. Del Brasile. Che ci azzecca? – direte. In quel grandioso paese il celebre Sergio Moro, il magistrato emulo e beniamino di Di Pietro, il Di Pietro brasiliano, è riuscito a perseguire prima direttamente poi per interposti gregari Luiz Inácio Lula da Silva: Lula è in galera invece che alla presidenza del paese e Sergio Moro è ministro della Giustizia dell’indescrivibile Bolsonaro invece che in galera tutti e due. Ora l’intercettatore Sergio Moro è stato intercettato. Tutto si tiene.