Il plenum del Csm (Foto LaPresse)

Le intercettazioni “occasionali” che tali non sono: ecco il vero trojan che da anni umilia il Parlamento

Annalisa Chirico

Le registrazioni delle telefonate tra politici e magistrati sono una gigantesca lesione delle prerogative parlamentari

Roma. Giudici più forti dei politici: è un bene? A ventisei anni dalla revisione delle immunità parlamentari, la domanda assume una certa attualità, enfatizzata dal caso Csm con il suo flusso continuo di conversazioni private, registrate via trojan, che coinvolgono, tra gli altri, due deputati in carica, Luca Lotti e Cosimo Ferri. Ma un eletto dal popolo può essere intercettato alla stregua di un comune cittadino? La risposta è negativa, e la ragione risiede nella necessità, ben nota ai padri costituenti, di preservare l’equilibrio dei poteri attraverso un “filtro”, comune a gran parte delle democrazie occidentali avanzate, contro il rischio di indebite interferenze. Era il 29 ottobre 1993: sull’onda di Tangentopoli e di un’opinione pubblica fanatizzata, il Parlamento riformulava l’articolo 68 della Costituzione, sulle immunità parlamentari, con il risultato che, oggigiorno, un eletto, deputato o senatore che sia, può essere in ogni momento sottoposto a indagine (prima della revisione, era necessaria l’autorizzazione a procedere della Camera di appartenenza e, in caso di diniego, il parlamentare non era processabile fino alla scadenza dell’incarico); stando alle norme vigenti, il magistrato è tenuto a chiedere il “permesso” del Parlamento ove intenda procedere all’arresto (esclusi i casi di flagranza), a perquisizioni personali e domiciliari o ad attività di intercettazione. Sono queste le reliquie delle antiche prerogative ancora vive nel nostro ordinamento, non si sa fino a quando. Viene allora da interrogarsi sul perché, da giorni, ampi stralci di colloqui riservati di magistrati e politici eletti vengano propalati, a mezzo stampa, con dovizia di virgolettati e interiezioni, nel silenzio di un Parlamento che si guarda bene dal rivendicare il rispetto delle proprie prerogative. Come se per “incastrare” il presunto colpevole ogni mezzo fosse lecito, inclusa la sospensione delle regole ad opera di chi dovrebbe applicarle.

 

  

Gli enunciati attribuiti a Lotti e a Ferri sono stati acquisiti legittimamente? La risposta è presto detta. Occorre, in primo luogo, distinguere tra intercettazioni “dirette” (cui il parlamentare è sottoposto non solo quale indagato ma anche quale persona offesa o informata sui fatti), intercettazioni “indirette” (sull’utenza di un terzo indagato) e “casuali”. La distinzione tra queste categorie è fondamentale: soltanto le prime due rientrano nella garanzia costituzionale dell’autorizzazione preventiva, quelle fortuite no. Ora, se un soggetto indagato parla con un primo parlamentare, in modo imprevisto, non vi è dubbio che questa prima captazione sia casuale, e perciò soggetta a una richiesta di autorizzazione successiva ai fini dell’utilizzabilità processuale. Ma se poi l’esito del colloquio è la fissazione di un incontro con quello stesso parlamentare, ed un altro, proseguire l’attività di captazione equivale, di fatto, ad indirizzarla anche verso costoro; di conseguenza, tali intercettazioni assumono carattere “indiretto” e, in assenza di un’autorizzazione preventiva, tale metodo di acquisizione è da ritenersi illegittimo poiché si traduce in una elusione delle prerogative parlamentari, ai sensi dell’art. 68. Con diverse sentenze sin dal 2007, la Consulta ha stabilito che l’autorizzazione preventiva all’intercettazione di un parlamentare è destinata “a trovare applicazione tutte le volte in cui il parlamentare sia individuato in anticipo quale destinatario dell’attività di captazione, ancorché questa abbia luogo monitorando utenze di diversi soggetti”, dovendo distinguersi, infatti, dalle captazioni “casuali” o “fortuite”, rispetto alle quali – proprio per il carattere imprevisto dell’interlocuzione del parlamentare – l’autorità giudiziaria non potrebbe, neanche volendo, munirsi preventivamente del placet della Camera di appartenenza”.

 

Memorabile fu il caso di Silvio Berlusconi che si ritrovò “fortuitamente” intercettato, si fa per dire, attraverso la messa sotto controllo, protrattasi per mesi, delle utenze telefoniche di diverse fanciulle colpevoli di frequentare lui e le cene di Arcore; il processo si concluse con l’assoluzione del Cav., un circo mediatico tambureggiante e una gigantesca lesione delle prerogative parlamentari dacché la magistratura aveva potuto orecchiare le conversazioni di un senatore bypassando, nei fatti, l’obbligo del “permesso” preventivo. Nel luglio 2016, in un sussulto di orgoglio, l’aula del Senato respinse, a scrutinio segreto, la relazione della Giunta per le elezioni e le immunità in favore della domanda di autorizzazione all’utilizzo delle captazioni telefoniche di Berlusconi. Nel dettaglio, la votazione riguardava la richiesta, avanzata dai pm milanesi, di consentire l’uso di undici intercettazioni tra l’ex premier e due cosiddette “olgettine”. La decisione, raggiunta con 130 no, 120 sì e otto astenuti, fu seguìta da un lungo applauso tra le grida di dissenso del M5s. Due anni prima, invece, il Senato aveva accolto la richiesta togata riguardo le intercettazioni di Denis Verdini nell’ambito delle inchieste su eolico sardo, P3 e Credito fiorentino. In quel caso, le captazioni sembravano in effetti ricadere nella fattispecie di quelle occasionali, e come tali suscettibili esclusivamente di autorizzazione ex post. Nel toga party bollente dei giorni nostri, invece, si è già letta ogni frase e ogni intercalare, tutto è sui giornali senza che il Parlamento si sia espresso né prima né poi, e chissà se mai lo farà, del resto nei colloqui si chiacchiera di nomine e promozioni, si scoperchia un sistema arcinoto ma celato da una coltre di ipocrisia, non c’è ombra di reati, gossip in quantità e di “occasionale” resta assai poco, visto che Palamara, Ferri e Lotti, per fissare tra loro gli appuntamenti serali, incluso quello del 9 maggio, impiegavano il telefono, non un piccione viaggiatore.

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