No, sulla Sea Watch la Corte di Strasburgo non ha dato ragione a Salvini
La sentenza della Cedu non riguardava i porti chiusi, come qualcuno ha frainteso, ma le condizioni di salute dei migranti
Martedì, la Corte europea dei diritti dell’Uomo (Cedu) ha diffuso un comunicato stampa con il quale ha cercato di spiegare le ragioni che l’hanno indotta a rigettare il ricorso presentato dal capitano della Sea Watch 3 e da alcuni migranti a bordo per ottenere dallo stato italiano le cosiddette “misure provvisorie” o “in via d’urgenza”.
Nonostante la chiarezza dell’esposizione della Corte non potesse lasciare spazio a interpretazioni fuorvianti circa il reale percorso attraverso il quale i giudici sono arrivati alla decisione, molti sono stati, invece, i tentativi di strumentalizzare un pronunciamento che, a quanto pare, non è risultato intellegibile a numerosi osservatori.
Il Giornale, per esempio, ha scritto sulla sua prima pagina d’una presunta sentenza storica che avrebbe avallato la politica dei porti chiusi e sancito la mancanza d’obblighi d’accoglienza in capo allo stato italiano.
L’ex parlamentare Daniele Capezzone, invece, cercando d’irridere sui social la “Suprema Cupola Politicamente Corretta” della stampa nazionale, ha ritenuto che la Corte abbia dato ragione a Salvini, mentre Giorgia Meloni ha affermato che a Strasburgo hanno avallato la linea dura dell’inviolabilità della sovranità territoriale italiana. Una maggiore dimestichezza con i meccanismi giuridici della Cedu, tuttavia, avrebbe evitato di fornire all’opinione pubblica notizie inesatte, al limite della falsità.
La Cedu, che diversamente da quanto riportato dal Giornale non è una Corte dell’Ue, ha chiarito che le misure provvisorie, come quelle richieste dalla Sea Watch, possono essere rivolte agli stati aderenti solo in presenza di circostanze eccezionali che espongono i ricorrenti a un rischio reale di pregiudizio irreparabile. Si tratta del cosiddetto requisito del “danno grave e irreparabile”, alla sussistenza del quale pressoché tutti gli ordinamenti giuridici subordinano l’adozione di misure adottate in via d’urgenza e la cui efficacia è temporalmente limitata. Invece, nella definitiva celebrazione d’un giudizio di merito, il contraddittorio fra le parti avrà modo d’esplicarsi in maniera esaustiva e l’acquisizione delle prove potrà svolgersi con la necessaria adeguatezza.
Nel caso della Sea Watch, i giudici di Strasburgo hanno accertato come già dal 15 giugno tutte le persone che avrebbero potuto subire un deterioramento della loro condizioni di salute dalla permanenza a bordo erano state sbarcate e adeguatamente assistite. Cosicché le informazioni acquisite dallo stato italiano e dalla stessa Sea Watch, hanno consentito d’appurare come non ricorresse in quel momento nessuna circostanza eccezionale che esponesse al rischio d’un pregiudizio irreparabile la salute e la vita dei ricorrenti.
A conferma del fatto che nessuna linea dura sia stata avallata con la decisione “cautelare” sul caso Sea Watch, la Corte, da un lato, ha ribadito come spetti allo stato italiano continuare a collaborare al fine d’assicurare la tutela della vita e della salute di coloro che sono imbarcati; dall’altro, ha sottolineato come questa decisione non pregiudichi alcuna valutazione futura in ordine alla ammissibilità e alla fondatezza del ricorso. La verifica dell’eventuale inadempimento dell’Italia agli obblighi discendenti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in altre parole, è rimandata alla fase di merito del giudizio, essendosi limitata in questa fase la Corte a verificare solo se fosse stato necessario un intervento a tutela d’un pregiudizio irreparabile alla vita e alla salute dei ricorrenti. A ciò si aggiunga che la decisione cautelare assunta dalla Corte è valida fino a che le condizioni non dovessero mutare e cioè fino a quando non dovesse presentarsi una situazione che esponga i passeggeri della Sea Watch a un pericolo imminente e irreparabile.
Dalla lettura del comunicato stampa della Corte emerge, in definitiva, come non ci sia peggior populista di chi non voglia smettere d’esserlo.